Col varo dell'autonomia differenziata regionale l'Italia spaccata in venti nuovi Stati
Il 16 gennaio il disegno di legge per l'autonomia regionale differenziata a firma del ministro leghista per gli Affari regionali e le autonomie Calderoli è approdato in Senato per la prima approvazione da parte del parlamento; cosa che è avvenuta in una settimana in tutto, con 110 voti favorevoli, 64 contrari e 3 astenuti, dopo che in appena un paio di giorni la maggioranza di governo compatta aveva liquidato le eccezioni di costituzionalità e respinto tutti gli emendamenti delle opposizioni, rendendo il voto finale del 23 una pura formalità. Il tripudio dei senatori della maggioranza, sottolineato dall'esibizione della bandiera col leone di Venezia da parte dei fascioleghisti, sottolineava il carattere marcatamente secessionista e neofascista di questa legge; che ora va alla Camera per l'approvazione definitiva, e Salvini farà di tutto per averla in tempi rapidi, così da poterla esibire come uno scalpo alle prossime elezioni europee.
A un anno dalla sua approvazione “all'unanimità e con applausi” da parte del Consiglio dei ministri, il ddl che realizza la “secessione dei ricchi”, cioè il vecchio sogno leghista della secessione delle regioni ricche del Nord dal resto d'Italia, sta quindi per andare in porto, grazie al patto scellerato tra il caporione fascioleghista Salvini e la neofascista Meloni che sancisce lo scambio tra l'autonomia differenziata cara alla Lega secessionista e razzista e la controriforma presidenzialista della Costituzione cara agli eredi di Mussolini e Almirante: “Siamo a un pezzo del percorso dell’autonomia differenziata, c’è anche il premierato all’esame della Commissione, quindi mi sembra che il trenino delle riforme vada”, ha esultato infatti il fascioleghista Calderoli.
Una volta che anche la Camera avrà approvato l'autonomia differenziata, la strada verso lo sgretolamento della Repubblica in 20 staterelli separati, cominciando con la separazione del Nord ricco e legato all'Europa dal Sud condannato all'isolamento e al sottosviluppo, sarà aperta e ben difficilmente si potrà tornare indietro. Sfruttando gli articoli 116,117 e 119 introdotti con la controriforma federalista della Costituzione voluta dal “centro-sinistra” nel 2001 per ingraziarsi il movimento di Bossi, Il ddl Calderoli concede infatti alle Regioni che ne facciano richiesta la potestà esclusiva su ben 23 materie, tra quelle di competenza statale e quelle concorrenti tra Stato e Regioni.
Un trasferimento di potere imponente dal centro alla periferia, mai neanche immaginato dai costituenti, capace di scardinare l'articolo 5 della Carta del 1948, laddove la pur riconosciuta “promozione delle autonomie locali” è subordinata alla salvaguardia della Repubblica “una e indivisibile”, che non a caso è posta in premessa. Nonché capace di violare gravemente gli articoli 2 e 3, che sanciscono rispettivamente i “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” e la “pari dignità sociale” e l'uguaglianza di fronte alla legge dei cittadini della Repubblica.
Demoliti i diritti fondamentali, a partire da salute e istruzione
Tra queste 23 materie ce ne sono infatti parecchie di primaria importanza che concernono diritti fondamentali che dovrebbero essere costituzionalmente garantiti in ugual misura su tutto il territorio nazionale, come la tutela della salute, l'istruzione pubblica, la tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali, la tutela e la sicurezza del lavoro, che già sono soggetti di fatto a forti disuguaglianze di classe e territoriali, in particolare tra il Nord e il Mezzogiorno d'Italia, e che lo sarebbero enormemente di più se passasse questa legge, la quale non farebbe che cristallizzare in forma legalizzata queste intollerabili sperequazioni. Vi sono poi altre materie, come i rapporti internazionali e con l'Unione europea, il commercio con l'estero, la ricerca scientifica e tecnologica, l'alimentazione, i porti e gli aeroporti civili, le grandi reti di trasporto e di navigazione, la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell'energia, che costituiscono un corpo unico di importanza strategica per il Paese, e che non possono essere spezzettate tra diverse regioni senza creare conflitti e indebolire l'integrità del Paese.
In particolare ad essere demoliti per primi sarebbero i diritti universali alla sanità pubblica e alla scuola pubblica, uguali per tutti e su tutto il territorio nazionale. Secondo studi della Fondazione Gimbe, già oggi la mobilità sanitaria interregionale in Italia ha raggiunto i 4,25 miliardi, con un netto aumento rispetto al 2020 (3,3 miliardi). Le regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, capofila nella richiesta dell'autonomia differenziata, raccolgono il 93,3% del saldo attivo, mentre il 76,9% di quello passivo si concentra in Calabria, Campania, Sicilia, Lazio, Puglia e Abruzzo, un gap strutturale destinato certamente ad aggravarsi con l'autonomia differenziata. Senza contare che quest'ultima incoraggerà ulteriormente l'esodo dei medici e infermieri dal Sud, attirati dai migliori trattamenti offerti dalla sanità del Nord, considerando anche l'accelerazione che si produrrà nel processo di privatizzazione già molto avanzato nelle regioni settentrionali. Lo stesso avverrebbe per i lavoratori della scuola, con la differenziazione delle retribuzioni e delle condizioni normative, mentre la differenziazione dei programmi e delle offerte formative spianerebbe la strada alla privatizzazione dell'istruzione e all'abolizione del valore legale del titolo di studio.
La truffa dei LEP e la crescita delle disuguaglianze
D'altra parte non c'è nessuna certezza che sia garantito il principio di solidarietà tra le regioni, in particolare da quelle del Nord verso quelle del Sud, tale da impedire il loro inarrestabile allontanamento. In teoria l'articolo 1 del ddl subordina l'entrata in vigore della legge alla determinazione dei LEP (Livelli essenziali delle prestazioni, valevoli per ciascuna regione del paese), che quindi avrebbero dovuto essere già stati fissati. In realtà, dopo il fallimento della commissione presieduta da Sabino Cassese, la loro definizione è stata rinviata di un altro anno dal governo, ma senza per questo rinunciare ad andare avanti lo stesso con la controriforma: i LEP sono quindi soltanto una foglia di fico per nascondere la vera natura secessionista di questa legge.
Non a caso, per coprirsi agli occhi degli elettori del Sud, dove ha ancora un cospicuo bacino di consensi che non vorrebbe perdere, la neofascista Meloni ha fatto inserire in Senato un emendamento che chiede adeguate risorse per “assicurare i medesimi livelli essenziali delle prestazioni sull'intero territorio nazionale, ivi comprese le Regioni che non hanno sottoscritto le intese, al fine di scongiurare disparità di trattamento tra le regioni”; peccato però che subito dopo si chieda anche che ciò avvenga “coerentemente con gli obiettivi programmati di finanza pubblica e con gli equilibri di bilancio”, il che smaschera la sua operazione come uno sporco gioco di bussolotti, perché promette risorse che non ci sono.
Del resto l'articolo 8 della legge sancisce inequivocabilmente che dalla sua applicazione e da ciascuna intesa con le Regioni “non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”: ovvero, l'autonomia differenziata deve essere a costo zero per lo Stato. Mentre, al contempo, l'articolo 5 sancisce che le Regioni il cui gettito fiscale è superiore alle risorse ricevute (quelle del Nord, generalmente), possono trattenere una parte delle tasse per finanziare le nuove competenze che si sono attribuite. Se da una parte le regioni ricche trattengono parte delle entrate fiscali che dovrebbero invece contribuire al fondo di perequazione per le regioni povere, e se dall'altra queste devono rispettare gli equilibri di bilancio e lo Stato non deve mettere un euro in più, da dove mai verranno le risorse per “scongiurare la disparità di trattamento” tra le regioni e impedire che quelle povere diventino ancor più povere?
Trattativa diretta governo-Regioni, parlamento esautorato
Inoltre i LEP vengono determinati non dal parlamento, ma dal governo, con un procedimento al termine del quale si approvano con un Decreto del presidente del Consiglio dei ministri (Dpcm); vale a dire un provvedimento amministrativo che non può essere nemmeno impugnato davanti alla Corte costituzionale perché non è una legge, nel caso per esempio che le regioni del Sud intendessero ricorrere contro la fissazione di LEP troppo bassi.
Anche la procedura prevista per la concessione dell'autonomia differenziata alle Regioni che ne facciano richiesta denuncia gli intenti truffaldini di questa legge; per la quale è stata scelta non a caso la via della legge ordinaria, più sbrigativa e senza le garanzie della doppia lettura parlamentare e del referendum confermativo che avrebbe comportato una legge di riforma costituzionale. La procedura prevede infatti una trattativa diretta tra il governo e la Regione interessata, senza il coinvolgimento del parlamento se non per esprimere “atti di indirizzo” per un'intesa che spetta unicamente ai suddetti due attori e alla quale arrivare in tempi prestabiliti attraverso la fissazione di tempi massimi per ogni passaggio, per un totale di appena 5 mesi prima della trasmissione dello “schema di intesa definitiva” alle Camere per l'approvazione a maggioranza assoluta dei componenti ai sensi dell'articolo 116. Approvazione a scatola chiusa, senza discussione né modifiche, prendere o lasciare; e, se approvata, senza possibilità di referendum abrogativo della legge.
Il parlamento borghese, che teoricamente rappresenta la “volontà popolare” e dovrebbe essere centrale nella formazione di tutte le leggi, è invece completamente scavalcato da una trattativa privata che si svolge direttamente tra il potere esecutivo centrale e i poteri amministrativi locali. Ma ciò è perfettamente coerente col suo esautoramento di fronte agli accresciuti poteri del premier previsti dalla repubblica presidenziale propugnata dalla neofascista Meloni, e ispirata alla P2 di Gelli e al fucilatore di partigiani Almirante.
Uniamoci per affossare l'autonomia differenziata e il governo Meloni
Il 16 gennaio, contemporaneamente all'inizio della discussione della legge nell'aula del Senato, migliaia di persone hanno partecipato a presìdi di protesta organizzati in 28 città dal Tavolo No Autonomia Differenziata (Trieste, Venezia, Torino, Varese, Como, Brescia, Milano, Pavia, Genova, Piacenza, Parma, Reggio Emilia, Bologna, Ancona, Viterbo, Roma, Latina, Frosinone, Avellino, Napoli, Potenza, Bari, Catanzaro, Vibo Valentia, Catania, Enna, Trapani e Francoforte), nel corso dei quali è stato consegnato a Prefetti e Uffici regionali il documento dei Comitati per il ritiro di ogni autonomia differenziata e l'uguaglianza dei diritti. Il documento sottolinea tra l'altro che il ddl Calderoli è arrivato in Parlamento “senza un’adeguata informazione al paese” e “senza che il Governo abbia ottemperato alla sua stessa tabella di marcia a proposito dei LEP, i livelli essenziali delle prestazioni, la cui definizione avrebbe dovuto concludersi entro il 2023”.
Contemporaneamente, davanti alle prefetture del Meridione, più di 100 sindaci, tra cui quelli di importanti città capoluogo come Matera, Foggia, Cosenza, Crotone e Catanzaro, hanno inscenato proteste contro il ddl Calderoli, chiedendo anche ai Senatori del Sud di non votarla. Essi hanno denunciato fra l'altro che “la revisione del Pnrr ottenuta dal ministro Raffaele Fitto colpirà soprattutto le regioni del Sud, che subiranno un taglio di 7,6 miliardi, la metà dei 15,9 che si prevede di ridurre. Per non parlare dell’eliminazione delle Zes e dei 4,4 miliardi distratti dal fondo perequativo infrastrutturale in una nazione che sul piano delle ferrovie e delle strade è letteralmente tagliata in due, l’alta velocità al Nord, la grande lentezza al Sud”.
“L’autonomia differenziata – hanno aggiunto i sindaci - rappresenterebbe il colpo di grazia e per questo noi sindaci del Sud chiediamo a tutti i senatori eletti nei nostri collegi di far sentire forte la loro voce di dissenso, in difesa della terra in cui sono nati loro stessi, i loro genitori e i loro nonni, i loro figli. Diversamente faremo conoscere alla popolazione chi si è sottratto a questo dovere morale”.
Ora occorre però mobilitare tutte le forze politiche, sindacali, culturali, religiose, in parlamento e soprattutto nelle piazze, che hanno a cuore la difesa dell'unità del paese, per impedire che questo sciagurato provvedimento che spacca l'Italia e favorisce il disegno presidenzialista e piduista della premier neofascista riesca ad arrivare in porto. Il PMLI, che ha sempre denunciato e combattuto il federalismo fascioleghista che disgrega l'Italia e divide le masse lavoratrici e popolari e che ha smascherato l'infame progetto dell'autonomia differenziata fin dal suo primo apparire, è impegnato in prima fila in questa cruciale battaglia da cui dipendono i diritti e l'unità del proletariato e delle masse popolari italiane.
pmli.it
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