Il futuro dell'Italia è il socialismo e il potere politico del proletariato

Perché il M5S non vota la fiducia al senato Draghi si dimette. Mattarella respinge le dimissioni e lo rinvia alle Camere Abbandonare le illusioni elettorali, parlamentari, governative, riformiste e costituzionali Il futuro dell'Italia è il socialismo e il potere politico del proletariato Il 14 luglio, subito dopo il voto in Senato sul decreto Aiuti che aveva visto consumarsi l'astensione annunciata del M5S, Mario Draghi è salito al Quirinale per annunciare a Mattarella la sua intenzione di dimettersi. Il capo dello Stato, facendogli presente la gravità della situazione, lo ha invitato a rifletterci, ma dopo due ore il premier ha riunito il Consiglio dei ministri per confermare la sua decisione: “La maggioranza di unità nazionale che ha sostenuto questo governo dalla sua creazione non c’è più. È venuto meno il patto di fiducia alla base dell’azione di governo”, ha detto. Dopodiché è salito di nuovo al Quirinale per notificare a Mattarella le sue dimissioni. Il quale però le ha respinte rinviandolo alle Camere per una verifica della maggioranza di governo, passaggio che è stato fissato per mercoledì 20 luglio, prima al Senato e poi alla Camera. Infatti le dimissioni di Draghi avvengono per una sua decisione e non perché il governo sia stato sfiduciato dal parlamento, dal momento che il decreto Aiuti è passato lo stesso con un'ampia maggioranza, grazie al voto dei transfughi di Insieme per il futuro usciti con Di Maio dal M5S. Questa crisi di governo aveva preso le mosse dalla profonda insoddisfazione del M5S e del suo leader Giuseppe Conte per l'irrilevanza sulla politica di governo in cui sono stati sempre più relegati da Draghi, acuita ultimamente dalla batosta elettorale alle recenti comunali, dalla scissione di Di Maio, che Conte sospetta sia stata pilotata da Palazzo Chigi, e dalle rivelazioni sulle richieste di Draghi a Grillo di sbarazzarsi dello stesso Conte. Il decreto Aiuti, varato dal governo per “assicurare la necessaria liquidità alle imprese e rafforzare le politiche di accoglienza nei confronti dei profughi ucraini”, nonché per adeguare all'aumento dei costi dovuto all'inflazione e ai prezzi delle materie prime e dell'energia i fondi per gli investimenti pubblici già stanziati, e per “aiutare i settori produttivi più colpiti dalle sanzioni alla Russia”, è diventato la pietra d'inciampo che ha fatto saltare definitivamente i già deteriorati rapporti tra il premier e il capo del M5S. In questo provvedimento, infatti, era stata inserita una norma per conferire al sindaco di Roma Gualtieri poteri speciali per realizzare un inceneritore nella capitale, e come se non bastasse il governo aveva accolto un emendamento della destra peggiorativo del Reddito di cittadinanza, votato anche dai dimaiani, che adesso può essere revocato dopo il rifiuto di due offerte anche da parte di privati, e non solo dei centri per l'impiego: due schiaffi in faccia al M5S, a cui si aggiungeva il rifiuto di Draghi di venire incontro alle loro richieste di inserire una norma per agevolare la cessione del credito per il superbonus edilizio del 110%, senza la quale migliaia di piccole aziende prive di liquidità rischiano il fallimento. Il premier decideva anzi di mettere la fiducia sul decreto, ormai prossimo alla scadenza del 16 luglio. Le petizioni di Conte e lo strappo di Draghi Da qui la decisione di Conte di astenersi sul decreto, pur confermando la fiducia al governo. Così è andata alla Camera, dove è possibile il doppio voto, ma non al Senato, dove il voto è unico e perciò l'astensione del M5S, secondo Draghi, equivale alla sfiducia nei confronti del governo. Prima del voto sul decreto che ha aperto la crisi, si era svolto il 4 luglio l'incontro tra Draghi e Conte in cui il capo dei 5 Stelle gli aveva consegnato un documento con 9 richieste sulle quali si aspettava “risposte certe” entro luglio per confermare la permanenza del Movimento nella maggioranza di governo. Tra queste il salario minimo, la difesa del Reddito di cittadinanza, aiuti a famiglie e imprese, il superbonus e il cashback, il taglio del cuneo fiscale, un “cambio di passo” sulla questione dell'invio delle armi all'Ucraina e dell'impegno dell'Italia per favorire la pace. Non compariva invece l'inceneritore di Roma, già sapendo che il premier non avrebbe accettato il suo rinvio ad altro provvedimento. Draghi gli faceva sapere che su questi temi “c'è ascolto e massima attenzione”, ma anche che “l'agenda resta la stessa e le sfide che attendono il governo non possono essere eluse, anche alla luce del PNRR”. L'obiettivo di Conte era di ottenere da Draghi almeno una o due risposte alle sue richieste che potesse sbandierare come una “svolta” per tacitare l'ala antigovernista, sempre più insofferente e decisa ad uscire dal governo, e far riprendere quota al Movimento e a sé stesso nei sondaggi. Ma la netta chiusura del premier ai temi sollevati, confermata anche dal nulla di fatto dell'incontro di Palazzo Chigi coi vertici di CGIL e UIL, congedati solo con qualche vaga promessa di rivedersi a fine mese, ha messo Conte con le spalle al muro, costringendolo alla scelta tra fare marcia indietro e perdere definitivamente la faccia votando la fiducia al Senato, o prendersi la responsabilità di una crisi di governo. Inutilmente l'ex “avvocato del popolo” ha cercato di salvare capra e cavoli assicurando che il suo non era un voto di sfiducia al governo, ma solo al decreto. Che del resto era passato, e in ogni caso Draghi avrebbe potuto continuare a governare anche senza i voti del M5S (grazie ai voti di Di Maio), e che da parte sua avrebbe potuto garantirgli un “appoggio esterno” votando i provvedimenti del governo caso per caso. Draghi ha preso invece la palla al balzo per salire al Quirinale e dare le dimissioni, aprendo la crisi e gettandone così l'intera responsabilità sulle spalle di Conte. Le dimissioni anomale del banchiere massone Probabilmente Draghi era da tempo che meditava di cogliere un'occasione giusta per sfilarsi da un ruolo diventato per lui troppo stretto e logorante, dopo il fallimento della scalata al Quirinale al quale in realtà puntava fin da quando accettò l'incarico da Mattarella. Un obiettivo che gli era stato sbarrato proprio dal M5S di Conte, oltre che da Salvini. Si dice infatti che il suo confronto con Mattarella sia stato alquanto “duro”, evidentemente perché il vecchio democristiano non ha preso bene che il banchiere massone, per investire il quale del titolo di “salvatore della patria” si era esposto fino a imbastire un golpe bianco istituzionale, abbandoni ora il campo lasciando il lavoro a metà, tra pandemia, inflazione, guerra, pericolo di recessione, siccità e quant'altro; e per di più senza essere stato realmente sfiduciato e avendo ancora i numeri per continuare a governare. Dal Quirinale hanno smentito questo retroscena, ma sta di fatto che Mattarella ha rifiutato le sue dimissioni e l'ha rinviato alle Camere, dicendogli chiaramente che non ha intenzione di esplorare altre soluzioni all'infuori della sua riconferma o delle elezioni anticipate a settembre. In attesa della verifica del 20 luglio Draghi si è chiuso in un silenzio sdegnoso, facendo trapelare di sentirsi vittima dell'irresponsabilità di Conte e più in generale delle beghe interne dei partiti, e i mass-media di regime gli reggono il sacco dandogli ragione e invocandolo come un Cincinnato. Dappertutto è un sol coro assordante che supplica un suo ripensamento: da Washington a Bruxelles, dalla finanza internazionale alla Confindustria, da Letta a Calenda, dal mondo dell'associazionismo ai presidi di scuola, dalla chiesa ai sindaci italiani, che in più di mille chiedono la sua permanenza al governo per paura di perdere i fondi del PNRR. Persino il segretario CGIL, Landini, invoca un “governo nella pienezza dei poteri”. Per non parlare di Matteo Renzi, il killer del governo Conte-Zingaretti che si vanta di aver portato Draghi a Palazzo Chigi, e che ha raccolto 100 mila firme a una petizione per riportarcelo a furor di popolo. E stavolta con poteri ancor più assoluti rispetto al parlamento e ai partiti, che non gli devono rompere più le scatole fino alla fine della legislatura, e magari anche oltre. Le spinte per il voto e il marasma nel M5S Per ora il banchiere massone non fa trapelare le sue intenzioni e sta ad osservare gli sviluppi della situazione, compiaciuto, fanno sapere i giornalisti cortigiani, per le acclamazioni generali che lo invocano. Si dice anche che starebbe negoziando con Biden per succedere a Stoltenberg come segretario della NATO in cambio della sua permanenza alla guida dell'Italia, in un momento delicato per la coalizione occidentale, con le dimissioni di Johnson e l'indebolimento interno di Macron. Il beffardo compiacimento del falco russo Medvedev per la sua caduta, e viceversa l'incitamento della vicepresidente ucraina Vereshchuk (“con Mario Draghi al governo vinceremo questa terribile guerra”, ha detto), confermano questa preoccupazione delle cancellerie occidentali. A chiedere le elezioni anticipate senza se e senza ma e fare pressioni suoi suoi alleati Salvini e Berlusconi è solo la ducessa Meloni, certa che con questa legge elettorale che premia le coalizioni il “centro-destra” farebbe il pieno di voti, mentre il “campo largo” di Letta e Conte è già andato in pezzi prima di nascere. I suoi due sodali però sono più incerti, vorrebbero andare anche loro al voto ma devono tener conto degli appelli al proseguimento del governo Draghi che viene dagli imprenditori, dai sindaci, dai governatori del Nord e dai consessi internazionali. Per cui pur dicendosi “pronti” alle elezioni, sono anche aperti a proseguire con Draghi purché senza gli “inaffidabili e incompetenti” del M5S. Quest'ultimo è sempre più nel marasma, riunito praticamente in assemblea permanente e sul punto di una nuova scissione tra i governisti, abbarbicati alle poltrone e sensibili alle sirene dimaiane, e gli oltranzisti antidraghiani, spinti anche dagli incitamenti di Di Battista, che premono sul titubante Conte per portare il M5S all'opposizione come ai vecchi tempi. Una seconda scissione del Movimento, con la fuoriuscita di altre decine di parlamentari governisti, numerosi soprattutto alla Camera guidati dal capogruppo Crippa, è ormai nell'ordine delle cose. Il ridimensionamento del M5S ad un più esiguo e ininfluente “partito di Conte”, come già lo chiama Di Maio per intestarsi la titolarità del “vero” M5S, potrebbe fornire a Draghi (e anche a Letta) la scusa per continuare questo governo, anche se Conte non si piegasse a fare marcia indietro e dovesse decidere di non votargli la fiducia. Questa è infatti la soluzione che gli suggerisce dalle colonne del Corriere della Sera , che insieme a La Repubblica guida la campagna pro-Draghi, il suo consigliere per gli affari istituzionali Sabino Cassese. Contare solo sulla lotta di classe Vedremo se il 20 luglio Draghi confermerà le sue dimissioni, stavolta “irrevocabili,” oppure no. Quel che è certo è che questa vicenda conferma lo stato di profonda crisi politica e istituzionale del regime capitalista neofascista italiano, che non riesce a garantirsi una governabilità e una stabilità neanche col golpe bianco di Mattarella e mettendo alla guida dell'esecutivo l'esponente più prestigioso dell'élite finanziaria e massonica europea e internazionale, direttamente collegato con i centri di potere di Bruxelles e di Washington. Conferma anche che qualunque sia la formula politica del governo borghese, compresa e a maggior ragione l'indecente ammucchiata del governo Draghi al servizio del regime capitalista neofascista, della grande finanza e dell'UE imperialista, le condizioni di vita e di lavoro della classe operaia e delle masse lavoratrici e popolari non possono che peggiorare. Lo dimostra l'esperienza di questi tre governi della legislatura, con l'aumento delle disuguaglianze, l'ulteriore precarizzazione dell'occupazione, l'arretramento dei salari, il depauperamento della sanità pubblica che ha esposto indifese le masse popolari alla micidiale pandemia, l'inflazione, il raddoppio delle bollette della luce e del gas, il pericoloso coinvolgimento dell'Italia nella guerra con l'invio delle armi all'Ucraina e l'aumento delle spese militari. Occorre dunque abbandonare tutte le illusioni elettorali, parlamentari, governative, riformiste e costituzionali, e contare solo sulla lotta di classe, contro i governi borghesi e per difendere esclusivamente i bisogni e gli interessi del popolo. Ma ciò non è sufficiente per assicurare per sempre la pace, il benessere e la salute delle masse, se non si abbatte il sistema capitalista sfruttatore e guerrafondaio che li nega, e se non si dà tutto il potere al proletariato conquistando il socialismo. Su questi temi cruciali è quantomai necessario e urgente aprire una grande discussione tra tutte le forze anticapitaliste, come propone il PMLI fin dall'insediamento del governo del banchiere massone Draghi. Il futuro dell'Italia è il socialismo e il potere politico del proletariato. 20 luglio 2022 http://www.pmli.it/articoli/2022/20220720_29L_crisigoverno.html
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