Ma chi sei, Cacini?
Quella che sto per raccontarvi è la storia dell’uomo che, nel momento di massimo consenso del Duce, osò sfidare il regime in tribunale, vincendo. Un uomo tanto sfrontato da essere diventato una leggenda proverbiale: “ma chi sei, Cacini?”, ripetono i romani, da quasi un secolo, a chi affronta le cose in modo spavaldo, ai limiti dell’arroganza. Già, ma chi era Cacini?
Il Ventesimo secolo era iniziato da poco, e Gustavo Cacini era un giovane e un po’ spaccone stagnaro di Borgo. Tanto rude nei modi, quanto esile nel fisico: un tipo smunto, con un leggero strabismo e un accenno di gobba, talmente malfatto da non passare certo inosservato. Fu anche per questo, per sopperire alle sue carenze fisiche, che il giovane Gustavo acquisì subito una teatralità spontanea nei gesti e nei comportamenti, tanto che i suoi amici gli suggerirono di lasciare il lavoro, per andare a recitare come comico in qualche scalcinata compagnia teatrale d’avanspettacolo.
Fra queste, c’era “Il Treno Rosa”, dove l’accoglienza dei colleghi non fu certo tenera: “Anvedi, ma questo c’ha n’occhio che manna affanculo l’artro!”, disse subito di lui il caratterista Bixio Ribeira, facendo della battuta anche un fortunato tormentone di scena.
Cacini non se ne curava, anzi, accentuando anche sul palco il suo comportamento spavaldo, provocatorio, arrogante, pareva trarre forza dalle critiche. In scena la sua caratteristica, il suo marchio di fabbrica, era infatti sempre più smaccatamente quello di provocare la platea con un atteggiamento di sfida, pieno di battute pesanti e di doppi sensi. D’altra parte il pubblico dell’epoca, a sua volta, era solito interagire in modo ruvido con gli attori di avanspettacolo, in quei locali fumosi e irrequieti, dando vita a duelli coloriti e leggendari.
Sui palcoscenici del Teatro La Fenice, dell’Ambra Jovinelli – ribattezzato, durante il Ventennio “Teatro Principe” – del Volturno, forte di un’arroganza plateale, dalla risposta pronta, sfoggiando una comicità pesante e una grande mimica, Cacini si atteggiava ad erede del grande pugile Primo Carnera, riuscendo così a controbattere agli attacchi dello scatenato pubblico romano, in quel clima da bolgia dantesca tipico dei teatri di quegli anni. Furono questi modi a fargli ottenere il rispetto e la stima degli spettatori. In scena, usava spesso un costume simile a quello reso noto da Totò: un frac smisuratamente grande, ma con i pantaloni assurdamente corti e le scarpe enormi. Era una maschera semplice, ma che creava ilarità, anche perché contrastava con il suo atteggiamento da bullo, che egli esaltava con le sue battute a doppio senso e le sue canzonette sboccate: “O che frutto saporito è la banana, o che frutto delizioso è la banana, la banana fa ingrassar!”.
Cacini contro Faccetta Nera
Nonostante il successo, Cacini non viveva nell’oro. Trasferitosi a Primavalle, non era raro vederlo la sera scendere dal tram, camminare per la fangosa via San Melchiade Papa, per poter raggiungere il dormitorio di via Federico Borromeo. A volte ad accompagnarlo c’era Zazà, una soubrette della sua compagnia, tanto bella quanto altrettanto squattrinata. Era con lei e con le altre sei ballerine del “Treno Rosa” che Cacini canticchiava, all’inizio di ogni suo spettacolo, una marcetta destinata a diventare famosissima: “La vita è comica, presa sul serio, perciò prendiamola come la va…”.
Lo so che queste parole non vi dicono nulla, ma so anche, per certo, che la musica di quel ritornello la conoscete benissimo. Erano gli anni della guerra di Etiopia e il regime aveva avviato una grande campagna di propaganda, per esaltare quell’impresa agli occhi degli italiani. Per attirarsi le simpatie delle classi più popolari, tra i mezzi utilizzati, non ci si risparmiava neanche un grande uso di doppi sensi e di canzonette sboccate, tipiche del teatro di quegli anni. L’esempio più efficace di questo tipo di propaganda, è sicuramente la canzone “Sanzionami questo”, un motivetto che ebbe subito un grandissimo successo, in cui alle sanzioni comminate all’Italia dalla “perfida Albione” e dalla Società delle Nazioni, si risponde con toni salaci, degni di uno sketch di avanspettacolo.
Visto il successo di “Sanzionami questo”, era quasi d’obbligo che a qualcuno venisse in mente di “rubare” di sana pianta qualche motivetto comico, per farlo diventare la canzone per antonomasia della propaganda di regime. Ci pensò Mario Ruccione, che, ascoltato il refrain di Cacini, lo trasferì senza modifiche in una nuova creazione musicale, destinata ad avere un successo clamoroso: “Faccetta nera, bell’abissina, aspetta e spera che già l’ora s’avvicina…” cantava Ruccione sulle note di “La vita è comica, presa sul serio”.
Il successo di “Faccetta nera” fu tale che la canzone giunse bene presto anche alle orecchie di Gustavo Cacini. “L’erede di Primo Carnera”, il bullo di palcoscenico, lo spaccone di tanti spettacoli, non poteva lasciare impunito l’affronto. E così, il comico decise di sfidare il regime e di portare il caso in tribunale. Il plagio era così smaccato che la causa intentata fu rapidamente vinta. La paternità del motivetto fu riconosciuta a Cacini, cui vennero anche assegnati parte dei ricavi dai diritti d’autore di quella marcetta fascista. Cacini si dimostrava così imbattibile: “È arrivato Cacini!”, cominciarono a dire i romani, avviandone in tal modo la leggenda.
Cacini sul grande schermo
A differenza di Totò, o di altri suoi contemporanei, fra Cacini e il cinema non ci fu mai grande feeling. Si limitò a qualche comparsata in alcuni film di seconda fascia, come “L’ultima carrozzella”, di Mario Mattoli, o “Se fossi deputato”, “Porca miseria!”, “Il tallone d’Achille”. A celebrarne la fama, anche sul grande schermo, ci pensarono però altri suoi colleghi e registi, gente che del cinema, non solo italiano, era destinata a fare la storia.
Il primo, cronologicamente, fu Alberto Sordi. “Era un comico nero e lungo, che pareva una penna stilografica: mentre la platea lo bersagliava inferocita, perché non si divertiva per niente, lui imperterrito continuava a ripetere: strillate, strillate, l’importante è che si parli di me” disse di lui Albertone, in un’intervista, prima di rappresentare alcuni suoi sketch in una scena del film “Un americano a Roma”.
Chi fece di uno spettacolo di Cacini un momento “cult” della storia del cinema fu il regista premio oscar Federico Fellini. Con Alvaro Vitali nei panni che furono dell’attore ex stagnaro, nel film “Roma”, c’è un momento indimenticabile, in cui uno spettatore getta un gatto morto sul palcoscenico, nel bel mezzo di una rappresentazione teatrale. Pare che l’episodio sia realmente avvenuto, all’Ambra Jovinelli, durante una replica non particolarmente ben riuscita di uno spettacolo di Gustavo Cacini.
A omaggiare Cacini, ci pensò anche il comico romano Enrico Montesano, che ha spesso riproposto, come tormentone, la battuta con la quale Cacini chiudeva i suoi siparietti, quelli in cui si proponeva al pubblico come l’erede del pugile Primo Carnera: “Le ho prese, sì, ma quante gliene ho dette…”.
Proprio come sarebbe successo in seguito a Gigi Proietti, anche Gustavo Cacini morì nel giorno del suo compleanno: il 31 dicembre 1969, a Nettuno, la cittadina in cui si era ritirato a vivere i suoi ultimi anni. Di lui, oggi, resta la leggenda, un modo di dire immortale e, da qualche anno, anche una strada di periferia: via Gustavo Cacini, nel quartiere Giardino di Malafede
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