Giovani e nuove droghe: tra abusi, autolesionismo e mancanza di speranza

Negli ultimi anni il disagio giovanile ha cambiato volto. Meno rumoroso, più sotterraneo, ma più diffuso. Gli adolescenti e i giovani adulti vivono in un tempo in cui la fragilità emotiva è altissima e le risposte sociali, spesso, non riescono a stare al passo. In questo vuoto si infilano sostanze, diagnosi rapide, psicofarmaci e un senso crescente di smarrimento. Un disagio che non trova parole Molti giovani si sentono stanchi prima ancora di cominciare. Il futuro non appare come promessa ma come minaccia. L’ansia è diventata compagna quotidiana, l’autostima un campo minato. La famiglia fatica a capire, la scuola non basta, e il mondo adulto — spesso distratto o spaventato — tende a semplificare ciò che semplice non è. Quando non si trovano spazi di ascolto, il dolore si sfoga nel corpo o nelle sostanze. Non per morire, ma per smettere di sentire. È una generazione che cerca anestesia, non distruzione. Le nuove droghe: l’illusione del controllo Le cosiddette “nuove droghe” — sintetiche, economiche, reperibili online — promettono euforia, lucidità, potenza. In realtà generano confusione, dipendenza, alterazioni durature sul cervello in crescita. Molti giovani non sanno cosa assumono. Dietro un nome colorato o un’immagine accattivante si nasconde un composto chimico instabile, che agisce sul sistema nervoso come una bomba a orologeria. Eppure il messaggio rimane lo stesso: “Senti di nuovo qualcosa, anche solo per un attimo.” Autolesionismo: ferirsi per restare presenti Tagliarsi, bruciarsi, spingersi oltre il limite. L’autolesionismo è il linguaggio di chi non riesce a dire quanto soffre. È una richiesta di controllo in un mondo che sfugge. Ogni gesto racconta una battaglia interna: contro il vuoto, contro l’ansia, contro se stessi. Non è sempre segno di suicidio, ma di sopravvivenza disperata. Quando arriva la psichiatria Il rischio oggi è che, di fronte a tanto disagio, la risposta diventi sempre più medica. Basta un periodo di crisi perché arrivi una diagnosi, un farmaco, un’etichetta. In molti casi serve davvero: la cura farmacologica può salvare vite, contenere la tempesta, dare spazio alla terapia. Ma c’è anche un’altra faccia della medaglia: giovani che passano da un reparto all’altro, da un centro di salute mentale a una comunità, con prescrizioni sempre più lunghe, fino a trasformare il disagio esistenziale in una “malattia cronica”. Così, al posto delle droghe di strada, arrivano gli psicofarmaci — presi per anni, spesso senza un vero progetto di reintegrazione. Non è cura, se manca la possibilità di tornare liberi. Il corto circuito: anestesia chimica e mancanza di speranza Che si tratti di sostanze illegali o legali, il punto è lo stesso: la tentazione di spegnere la mente per non affrontare il vuoto. Il rischio è costruire una società che non ascolta ma sedativa. Dove il dolore non si comprende, si gestisce. Dove ogni emozione forte diventa “sintomo”. Molti giovani finiscono così in un limbo: non più “malati” abbastanza da stare in ospedale, ma neanche liberi abbastanza per tornare alla vita. Entrano ed escono da servizi, comunità, reparti. Senza trovare davvero un posto dove stare. Riscoprire la speranza La vera cura, forse, comincia fuori dai protocolli. Nella possibilità di essere ascoltati senza essere subito catalogati. Nella scuola che educa alle emozioni, non solo alle regole. Nella famiglia che accetta la fragilità come parte della crescita. Serve una psichiatria che accompagni, non che sostituisca la vita. Serve una società che non confonda il controllo con la guarigione. E serve, soprattutto, ridare ai giovani la sensazione che il futuro non sia un giudizio, ma un orizzonte. Tratto da https://fai.informazione.news/u/comitatosalutepsiche
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