Televisione del Delitto: Quando l’Audience Vale Più della Verità

Da anni la televisione italiana sembra aver scoperto un filone inesauribile: trasformare la cronaca nera in spettacolo. Non informazione, non approfondimento, ma intrattenimento emotivo confezionato come una serie televisiva. Serve un caso forte, possibilmente violento, con dinamiche familiari distorte, un movente ambiguo e una vittima giovane. Il resto lo fa il montaggio: musica drammatica, immagini ripetute fino all’ossessione, opinionisti sempre pronti a riaprire un processo che la giustizia ha già concluso. L’esempio più evidente è quello del caso di Garlasco, tornato sui palinsesti più volte come fosse una saga con stagioni successive. Condanne, appelli, sentenze definitive: niente sembra bastare. A ogni anniversario, a ogni nuova trasmissione, l’intera vicenda viene smontata e rimontata come se fosse ancora in corso. Nuove ipotesi, nuove “testimonianze”, nuove ricostruzioni che, alla prova dei fatti, non aggiungono nulla. Ma servono a tenere attivo un interesse morboso, come se chi guarda avesse diritto di riscrivere ciò che i tribunali hanno già stabilito. Questa dinamica non riguarda solo Garlasco: accade con quasi ogni grande caso di cronaca. Funziona così perché è economico e garantisce ascolti. Non servono sceneggiatori, non serve fantasia: basta riproporre lo stesso materiale con titoli diversi. Il risultato è una televisione che vive di tragedie altrui, che allunga il dolore delle famiglie per trasformarlo in share, e che confonde il pubblico tra realtà e fiction. Il problema non è raccontare i fatti. Il problema è riproporli all’infinito, anche quando non esiste più niente da scoprire, solo perché un dolore riciclato vale più di un contenuto nuovo. Così il confine tra informazione e spettacolo si dissolve. La sentenza perde valore. L’opinione prende il posto dei fatti. E la tragedia diventa format. Alla fine, quella televisione non chiede giustizia. Chiede attenzione. Non offre verità. Offre indignazione preconfezionata. E mentre lo fa, normalizza l’idea che tutto possa essere consumato: la morte, il lutto, l’errore umano, perfino la dignità. E se nulla cambia, è perché l’audience continua a rispondere. In fondo, dove non c’è più silenzio, c’è spettacolo. E al palinsesto basta quello.
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