Psichiatria : quando la fragilità diventa un rischio
Ci sono storie che sfuggono alla logica e finiscono dritte nello stomaco, più che nella mente. Una di quelle riguarda persone che soffrono di disturbi psichiatrici ma che, nonostante diagnosi e precedenti gravi, vengono rimesse in libertà senza un reale controllo. E quando succede qualcosa di grave, tutti si fanno la stessa domanda: poteva essere evitato?
Il punto non è demonizzare chi ha una malattia mentale — la maggior parte non farà mai del male a nessuno — ma affrontare una realtà scomoda: in alcuni casi specifici, il rischio esiste eccome. E quando la psichiatria, la giustizia e i servizi territoriali non parlano la stessa lingua, quell’individuo diventa un punto cieco del sistema.
Il problema nasce spesso molto prima del reato. Diagnosi non definite, valutazioni superficiali, terapie lasciate solo ai farmaci, misure di sicurezza che scadono come se la guarigione fosse una data sul calendario. In teoria esistono percorsi, strutture, controlli. In pratica, troppe volte restano vuoti di contenuti, o si riducono a firme settimanali e pillole da prendere “se ti va”.
Nel frattempo, gli psicofarmaci vengono prescritti come caramelle, spesso senza un vero percorso psicologico dietro. Non perché gli specialisti non siano capaci, ma perché mancano tempo, risorse, continuità. La cura della mente non può essere standardizzata come un antibiotico: richiede ascolto, osservazione, relazione. Senza questi elementi, il farmaco non cura: anestetizza. E quando l’effetto svanisce, tornano impulsività, paranoia, rabbia… e può tornare anche la violenza.
E poi c’è un altro rischio, più subdolo: la società comincia a confondere tutto. “Malato mentale” diventa sinonimo di “pericoloso”. Si crea stigma, paura, distanza. Chi soffre davvero — e non farebbe male nemmeno a una mosca — si ritrova a sentirsi un peso, o un mostro da nascondere.
La verità è che non serve fare la guerra ai pazienti psichiatrici, ma serve un sistema che funzioni. Serve che le valutazioni di pericolosità non siano fatte con leggerezza. Serve che i giudici ascoltino gli specialisti, e che gli specialisti abbiano strumenti reali, non solo carta e protocolli. Serve che non ci si svegli solo dopo l’ennesimo titolo di cronaca.
Alla fine, la domanda è semplice e scomoda: cosa vale di più, la libertà individuale a tutti i costi o la sicurezza collettiva? Nessuna risposta facile. Però ignorare il problema non lo risolve. E quando una società non protegge né chi è fragile né chi rischia di subirne le conseguenze, allora forse non stiamo parlando di diritti… ma di abbandono mascherato da libertà.
per un Comitato Studi Sanità
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