E siamo al 26 dicembre, a stomaco ancora offeso
Ieri, giorno santo e profano insieme, ho mangiato poco. Così mi dico. L’ho detto anche allo specchio stamani, che però mi ha guardato con quell’aria da non-credente. Panettoni sì, plurale come i peccati. Dolci a pioggia, carni a vista, ma con moderazione, intendiamoci: solo quanto basta a prendere cinque chili di rispetto. Eppure niente, non sono sazio. A Lucca si dice che il corpo ha memoria, ma il mio ha solo appetito.
È il 26 dicembre e già mi lamento, perché il Natale dovrebbe saziare l’anima, ma a me ha solo aperto lo stomaco. Accendo la televisione e lei, gentile, fa finta che il mondo sia una tavola imbandita: lucine, sorrisi, ricette che grondano burro come se fuori non ci fosse gente che la guerra non la digerisce, e altri che la fame la conoscono fin troppo bene. Io mastico e penso: che bello poter essere scandalosamente pieni mentre altrove si è scandalosamente vuoti.
Il mio scopo nelle feste, sacre o non sacre poco cambia, è semplice e onesto: ingurgitare. Non cerco redenzione, cerco il bis. Non cerco silenzio, cerco il rumore del coltello sul piatto. Il vero momento mistico arriva quando mi slaccio il bottone e sento quel brivido lì, l’unico orgasmo reale che mi è rimasto: la pancia tesa e l’illusione che basti un altro boccone per stare finalmente in pace col mondo.
Ma la pace dura poco, come il pandoro. E allora mi lamento, da bravo lucchese, con ironia e un filo di vergogna: perché so che queste feste sono un privilegio che si scioglie in bocca, e io, invece di fermarmi, chiedo il caffè e ammazzo tutto. Domani forse penserò. Oggi no. Oggi mangio.
Bao.
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