La BCE all’assalto dei salari
La Banca Centrale Europea (BCE) ha annunciato, giovedì 9 giugno, una storica virata nella politica monetaria dell’area euro. Due sono i profili di questa manovra monetaria che invertono la rotta avviata con la crisi dei debiti pubblici degli anni Dieci: l’aumento dei tassi di interesse e la fine degli acquisti diretti di titoli pubblici da parte della banca centrale.
Dopo undici anni di ribassi continui, la BCE ha annunciato che a luglio tornerà ad aumentare i tassi di interesse. Tra i compiti fondamentali di una banca centrale c’è la definizione del cosiddetto costo del denaro, ossia il tasso di interesse che le banche commerciali pagano alle banche centrali per prendere a prestito il denaro di cui hanno bisogno per il loro regolare funzionamento. La BCE, fissando i tassi di interesse pagati dalle banche commerciali per le loro operazioni di rifinanziamento, riesce ad orientare i tassi di interesse che le banche commerciali faranno poi pagare allo Stato, ai cittadini e alle imprese per l’erogazione di prestiti. In prospettiva, la BCE ha anche annunciato che quello di luglio sarà il primo di una serie di aumenti dei tassi di interesse che, progressivamente, porterà il costo del denaro ben al di sopra degli attuali tassi negativi, e dunque fuori dalla zona di eccezione in cui si è mossa la politica monetaria emergenziale dalla crisi dei debiti pubblici alla pandemia.
Secondo l’ideologia della BCE, la politica monetaria ha il compito fondamentale di garantire la stabilità dei prezzi e mantenere l’inflazione attorno al 2%. L’inflazione è solitamente spiegata dalle banche centrali come determinata da un eccesso di domanda che surriscalda l’economia e che dunque crea ondate inflazionistiche. L’annunciato rialzo dei tassi di interesse è stato giustificato dalla BCE, non senza acrobazie, con il sensibile aumento dei prezzi che si è registrato negli ultimi mesi. Tuttavia, l’inflazione galoppante dei mesi scorsi deriva palesemente dalla spinta dei prezzi dell’energia, in gergo economico dal lato dell’offerta, e non da eccessivi surriscaldamenti dell’economia guidati dalla domanda. Dunque, non vi sarebbe alcuna ragione, pur all’interno del quadro teorico stesso della BCE, per aumentare i tassi di interesse e di conseguenza comprimere la domanda di famiglie e imprese. Ci è arrivato persino il principale consigliere economico di Draghi, il bocconiano Giavazzi, forse incoraggiato in questo slancio di perspicacia dagli effetti nefasti che l’aumento dei tassi avrebbe oggi sul suo Governo e di cui parleremo nell’ultima parte di questo contributo: i nostri amici bocconiani ci hanno sempre raccontato che spread e tassi dipendono dalla fiducia e da altre amenità, mentre oggi che la frusta monetaria si abbatte sul loro loden ci spiegano che “noi non abbiamo una inflazione da domanda come negli Usa ma abbiamo una inflazione legata al prezzo del gas” e dunque “alzare i tassi è uno strumento sbagliato”. Comunque, non ci si lasci ingannare da questa conversione. Infatti, è sempre Giavazzi a chiarire: l’aumento dei tassi è sbagliato perché noi già stiamo facendo i nostri “compiti a casa” con il PNRR e le sue 528 condizionalità, e, in ogni caso, sempre citando Giavazzi, il nostro peccato originale è sempre e solo l’elevato rapporto debito/PIL.
Dall’altro lato della frusta, a Francoforte, tirano dritto e sono costretti ad argomentare che, sebbene sia evidente che l’inflazione attuale sia principalmente da offerta, le aspettative di lungo periodo (altre creature mitologiche dell’economia dominante) ingloberebbero già un’inflazione da domanda, cioè un eccesso di spesa rispetto alla produzione che si potrà realizzare. Già, avete capito bene: alla BCE stanno dicendo che l’economia è troppo frizzante e cresce a ritmi troppo elevati rispetto alle capacità produttive, e dunque c’è bisogno di raffreddare gli animi, cioè aumentare il tasso di interesse per frenare la domanda di beni e servizi. Nelle parole della Presidente della BCE: “Stiamo chiaramente vedendo che l’aumento dell’inflazione oltre il 2% interessa il 75% dei beni considerati ai fini del calcolo dell’inflazione, una percentuale senza precedenti. Ciò vale per beni industriali non energetici, vale per i servizi e si spiega solo in parte – ma non solo – come un riflesso dell’aumento dei costi dell’energia.”
Infine, e qui il delirio ideologico della BCE ci porta più vicini alla sostanza del problema, la Lagarde punta il dito contro un presunto aumento dei salari: “siamo molto attenti ai salari, alla contrattazione salariale … vediamo aumenti salariali che hanno accelerato, in particolare da marzo … e prendiamo atto che la Germania, per esempio, aumenterà il salario minimo a partire dal primo ottobre”. Oltre la cortina di fumo della teoria economica dominante, si intravede ora il reale significato dell’aumento dei tassi di interesse annunciato dalla BCE. Con i prezzi energetici si è avviato un ciclo di aumento generalizzato dei prezzi che avrà, come effetto principale, una redistribuzione del reddito dai salari ai profitti. All’interno di questo processo, l’aumento del tasso di interesse serve a preservare i profitti del settore privato (finanziario e non finanziario), lasciando indietro solo i salari che sono schiacciati dalla debolezza contrattuale dei lavoratori, dalla precarietà diffusa e dall’elevato livello di disoccupazione, che scoraggia le rivendicazioni salariali.
Per quanto riguarda il settore bancario e finanziario, sono proprio gli aumenti dei tassi di interesse messi in moto dalla manovra della BCE che permettono alle rendite finanziarie di crescere parallelamente ai prezzi, scaricando così sui debitori i maggiori costi di prestiti e mutui. Per quanto riguarda il settore delle imprese non finanziarie e non bancarie, utile è richiamare l’attenzione su quello che tra gli economisti viene comunemente chiamato Paradosso di Gibson o Price Puzzle. Secondo questo fatto empirico, che impropriamente è definito un paradosso, una politica monetaria restrittiva della banca centrale basata sull’aumento dei tassi porta ad un aumento dei prezzi. In sostanza le imprese, vedendo aumentati i costi di produzione (si pensi ad esempio ad imprese indebitate con il settore bancario che dovranno pagare un tasso d’interesse maggiore e sopportare un più elevato costo del debito), scaricano questi maggiori costi sui prezzi, aumentandoli. Ovviamente, si tratta di un paradosso solo per la teoria economica dominante, secondo la quale in periodi di forte inflazione la banca centrale, aumentando i tassi di interesse, rallenterebbe il surriscaldamento dell’economia e di conseguenza l’inflazione. Tuttavia, proprio un paradosso non sembra essere e diversi studiosi hanno iniziato a inquadrare tale effetto come una normale conseguenza della politica monetaria, definendolo appunto il ‘canale di costo della politica monetaria’. Ne consegue anche che l’ulteriore aumento dei prezzi che si verificherà proprio a causa della stretta monetaria della BCE porterà ad una ulteriore diminuzione del potere d’acquisto dei lavoratori. In sostanza, oltre al danno anche la beffa: già gli aumenti dei prezzi dell’energia gravano in larga misura sulle spalle della classe lavoratrice; l’aumento dei tassi di interesse, guidato dalle politiche scellerate della BCE, non fa altro che aggravare la situazione per la maggioranza della popolazione, in quanto da un lato aumenta ulteriormente i prezzi dei beni – alla faccia delle misure di contenimento dell’inflazione – e dall’altro costringe a pagare interessi più elevati per prestiti e mutui.
Con l’aumento dei tassi, dunque, la BCE schiera l’autorità monetaria in linea con l’orientamento inflattivo dell’economia, a tutela delle rendite finanziarie e i profitti delle imprese e a discapito dei salari. Dietro al feticcio della stabilità dei prezzi si nasconde il ruolo politico svolto dalla banca centrale nella lotta di classe per la divisione del prodotto, un ruolo che oggi è svolto in Europa con una forza mai vista prima in virtù dell’architettura istituzionale dell’Unione. Come abbiamo visto, le istituzioni europee, invece di lavorare seriamente al raggiungimento di un accordo di pace in Ucraina, il quale sì porterebbe ad un riassorbimento dell’inflazione, hanno scelto la via più facile: non scontentare i padroni e far pagare le conseguenze della guerra alla classe lavoratrice. Evidentemente, la guerra non è uguale per tuttiLa Banca Centrale Europea (BCE), giovedì 9 giugno, ha annunciato una storica virata nella politica monetaria dell’area euro: l’aumento dei tassi di interesse e la fine degli acquisti diretti di titoli pubblici da parte della banca centrale.
Queste decisioni non saranno neutrali né per il potere d’acquisto della classe lavoratrice, come mostrato nella prima parte di questo contributo, né per la stabilità finanziaria e quindi politica dei paesi dell’area euro.
La manovra di politica monetaria di giovedì non si limita alla leva, pur fondamentale, dei tassi di interesse. L’altro pilastro della gestione finanziaria dell’area euro dell’ultimo decennio che viene abbattuto è il protagonismo della banca centrale negli acquisti di titoli pubblici sui mercati, che già a marzo scorso aveva segnato il passo con la fine del programma di acquisti di titoli varato per contrastare gli effetti della pandemia, il Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP). A partire dal 2010, quando i tassi di interesse sui titoli greci volavano alle stelle, la BCE ha introdotto una serie di strumenti che le consentissero di acquistare direttamente sui mercati finanziari i titoli del debito pubblico dei Paesi membri. Così, prima con il Greek Loan Facility vennero acquistati i titoli del debito pubblico greco per frenare la spirale speculativa che si era abbattuta sul Paese, poi con il Securities Market Programme ed il fondo salva stati (oggi European Stability Mechanism) gli acquisti si sono estesi ai cosiddetti PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna), la periferia dell’Unione dove si stava allargando il fronte dell’instabilità finanziaria esploso in Grecia. Passata la stagione emergenziale, la BCE aveva introdotto l’Asset Purchase Programme (APP), evoluzione di tutti gli strumenti precedenti, il quale serviva a gestire i flussi di questi acquisti diretti di titoli pubblici europei in maniera più equilibrata: questo strumento consentiva di comprare titoli della periferia ma anche titoli dei Paesi centrali, Germania in primis, e dunque di ribilanciare il costo del denaro pagato dai governi dell’area dell’euro e di governare pienamente gli spread, cioè i divari tra i tassi di interesse sui titoli di Stato dei vari Paesi europei. Infatti, ogni volta che la banca centrale acquista i titoli del debito pubblico di un Paese, spinge al ribasso il tasso di interesse su quei titoli perché ne alimenta la domanda: gli acquisti di titoli sono uno strumento di contenimento del costo del debito pubblico sostenuto dai governi, ovvero il principale strumento attraverso cui è stata garantita la stabilità finanziaria dell’area euro negli ultimi dieci anni.
Per avere un’idea più concreta di cosa significhi questo, guardiamo agli effetti sul costo del debito pubblico italiano del contesto di politica monetaria degli ultimi dieci anni, caratterizzato da tassi di interesse al limite minimo e acquisti diretti di titoli di Stato da parte della banca centrale: il costo medio all’emissione dei titoli del debito pubblico italiano è passato dal 3,61% del 2011 allo 0,1% del 2021. Da luglio, però, si volta pagina.
Proprio mentre decide di aumentare i tassi di interesse, con l’annuncio di giovedì la BCE termina l’APP, mettendo fine all’acquisto di ulteriori titoli pubblici europei sui mercati finanziari. Questa specificazione, “ulteriori”, è fondamentale per comprendere la mossa dell’autorità monetaria europea. Infatti, la banca centrale ha annunciato la fine degli acquisti netti, ma non degli acquisti lordi: non verranno più comprati nuovi titoli di Stato europei, ma quelli acquistati nell’ultimo decennio resteranno nei conti della BCE e, alla scadenza saranno reinvestiti sempre nell’acquisto di titoli di Stato, in modo da mantenere inalterata la quantità di titoli pubblici europei detenuta dall’autorità monetaria. Questo dettaglio è fondamentale perché, nel decennio di acquisti netti positivi la BCE ha accumulato, tra APP e PEPP, circa 4.500 miliardi di euro di debito pubblico dei paesi europei. Per provare a dare maggiore concretezza a queste cifre astronomiche, proviamo a concentrare l’attenzione sull’Italia: vi sono oggi in circolazione 2.300 miliardi di euro di titoli del debito pubblico italiano di cui 727 miliardi, cioè il 31,6%, detenuto dalla BCE in virtù degli acquisti effettuati tramite i due principali programmi, APP (448 miliardi) e PEPP (279 miliardi). In altre parole, attraverso acquisti diretti sui mercati finanziari, la BCE è giunta a detenere un terzo del debito pubblico dell’Italia e, analogamente, dei principali Paesi europei. Per fare cosa?
Con la fine degli acquisti netti decretata dalla BCE, questo patrimonio di circa 4.500 miliardi di euro di debito pubblico dei paesi dell’area euro smetterà di crescere ma non inizierà a diminuire, e resterà nella pancia della banca centrale. Con un’importante, ulteriore, specificazione: la composizione di questa massa di titoli pubblici potrà variare secondo logiche che la stessa banca centrale si riserva di definire nel prossimo futuro. In sostanza, la BCE si impegna a tenere in pancia titoli del debito pubblico di tutti i paesi europei per un ammontare pari a 4.500 miliardi di euro, ma si tiene la libertà di scegliere la composizione di questi 4.500 miliardi. Se da una parte quindi gli acquisti netti dell’euro area presa nel suo complesso non varieranno, potranno cambiare gli acquisti netti che la BCE farà in relazione ai titoli del debito pubblico dei singoli paesi. Infatti, potrà tranquillamente decidere di diminuire i 727 miliardi di debito italiano per comprare, ad esempio, più titoli tedeschi, portoghesi e spagnoli. E proprio qui veniamo al nodo della questione, al punto politico di maggiore attualità, ossia come la stabilità finanziaria di un paese poi influenza la sua stabilità politica. Infatti, quando discutiamo della composizione dei titoli di Stato detenuti dalla BCE stiamo discutendo del potere che quella montagna di titoli conferisce alla banca centrale nel determinare la stabilità o l’instabilità finanziaria di singoli Paesi dell’area euro. Non appena la banca centrale deciderà di modificare l’attuale composizione del suo patrimonio di titoli pubblici, potrà acquistare nuovi titoli pubblici di un Paese solo con i proventi derivanti dal disinvestimento dei titoli pubblici di un altro Paese. Abbiamo detto che l’acquisto di titoli pubblici da parte della banca centrale è una straordinaria arma di contenimento del costo del debito pubblico di un Paese; esattamente alla stessa maniera, la vendita di titoli pubblici detenuti dalla banca centrale è una straordinaria arma di aumento del costo del debito pubblico, e può innescare una spirale nei tassi di interesse capace di far saltare la stabilità finanziaria di qualsiasi Paese dell’area euro. È l’ormai nota dinamica degli spread, che fotografano esattamente la distanza che separa i tassi di interesse sui diversi debiti pubblici. Quando la BCE tira la coperta, lascia alcuni Paesi in balia dei mercati finanziari, e per questa ragione vedremo allargarsi i divari tra i tassi dei Paesi che restano al sicuro, sotto l’ombrello della banca centrale, e quelli scoperti e vulnerabili.
Per dare contenuto a questi ragionamenti proviamo, di nuovo, a guardare agli effetti sull’Italia di questa politica monetaria. Rispetto ad un anno fa, il rendimento dei BTP a 10 anni (i titoli maggiormente rappresentativi del debito pubblico italiano) è passato dallo 0,7% all’odierno 3,9%. Si potrebbe pensare che questo sia solo l’effetto sui mercati finanziari della prospettiva di aumento dei tassi di interesse annunciato dalla BCE. Basta volgere lo sguardo verso Berlino per capire che così non è, e che accanto alla tendenza generalizzata all’aumento dei tassi di interesse della BCE rilevano, nel contesto attuale, le scelte adottate dalla banca centrale in tema di acquisti diretti di titoli. Infatti, anche il rendimento dei bund decennali, gli omologhi tedeschi dei nostri BTP a 10 anni, è aumentato nell’ultimo anno, ma in misura sensibilmente minore, passando dal terreno negativo del -0,3% all’attuale 1,5%. Lo spread tra il tasso italiano e quello tedesco ci permette di cogliere all’istante il punto, perché vediamo che è passato, in un anno, da 100 punti base a 240 punti base, più che raddoppiando.
Insomma, i tassi di interesse sono aumentati per tutti, ma non per tutti i Paesi alla stessa maniera. Ci sono alcuni Paesi, tra cui la Germania, che soffrono meno l’aumento dei tassi mentre altri, tra cui l’Italia, risultano maggiormente esposti al rialzo. Questa maggiore o minore vulnerabilità ai capricci dei mercati finanziari dipende anche dal grado di protezione del debito pubblico garantito dall’autorità monetaria. Con la fine degli acquisti netti di titoli da parte della BCE, questa protezione finisce per dipendere esclusivamente dalla composizione del portafoglio di titoli pubblici detenuto dalla banca centrale: da oggi, qualsiasi decisione di disinvestimento dei titoli di Stato di un Paese dell’area euro da parte della BCE equivale alla fine della sua stabilità finanziaria. È proprio alla luce di questo scenario di elevatissima incertezza che assistiamo, già in queste settimane, ad un pronunciato allargamento degli spread: i mercati finanziari stanno semplicemente anticipando quello che è facile aspettarsi, e cioè il progressivo abbandono dei Paesi della periferia dell’area euro alla speculazione da parte della BCE, esattamente come accadde, più di dieci anni fa, con la Grecia. E come nel caso greco, i governi lasciati in balia dei mercati finanziari finiscono tra le braccia delle autorità europee, chiedendo un supporto finanziario che sarà condizionato alle solite riforme liberiste e alla solita rigida applicazione delle misure di austerità che servono a smantellare salari e stato sociale.
Non a caso, negli ultimi giorni si è iniziato a parlare – proprio come avvenne nel 2011 – della necessità di uno “scudo anti-spread” e il 15 giugno la BCE ha annunciato la prossima introduzione di un nuovo strumento. A breve, dunque, conosceremo i dettagli delle condizioni a cui la banca centrale subordinerà i suoi interventi in difesa dei debiti pubblici europei, secondo una dinamica sperimentata in Grecia e replicata in tutta la periferia europea negli anni a seguire. Dunque, la BCE deve decidere cosa chiedere in cambio della tutela della stabilità finanziaria, e la storia ci insegna che chiederà riforme, contenimento dei salari e riduzione della spesa pubblica, ovvero smantellamento dello stato sociale.
La BCE dal volto italiano di Mario Draghi presidiò, dalla torre di Francoforte e con l’arma dello spread, la lunga stagione di governi tecnici e di unità nazionale che hanno scandito la vita politica del nostro Paese negli ultimi due lustri, garantendo la piena compatibilità delle scelte governative con il perimetro politico ultraliberista imposto dalle istituzioni europee in un frangente storico di emersione delle spinte populiste incarnate dal successo elettorale del Movimento Cinque Stelle, che aveva fatto vacillare la stabilità politica del Paese dell’ultimo trentennio. Analogamente, la BCE dal volto francese di Christine Lagarde anticipa di poche ore con una stretta monetaria di portata storica lo smottamento della stabilità politica francese indotto dal successo elettorale di Nupes, la coalizione guidata da Jean-Luc Mélenchon, lanciando un messaggio chiarissimo ai mercati finanziari. Nell’istante in cui le scelte politiche di un Paese dovessero virare rispetto alla linea definita a Bruxelles, la sua stabilità finanziaria sarà compromessa, e con quella la sua tenuta economica e sociale da un lato e la stabilità politica dall’altro. È un ricatto che discende direttamente dall’uso sapiente delle principali leve della politica monetaria da parte di una classe dirigente che è pronta a tutto per difendere gli interessi di pochi dalla rivendicazione di maggiore giustizia sociale gridata nelle urne dal popolo francese e riecheggiata in ogni angolo d’Europa in cui la popolazione soffre precarietà, disoccupazione e fratture sociali che, dopo la pandemia e con la guerra in casa, continuano ad allargarsi.
ConiareRivolta
http://www.comunismoecomunita.org/
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