Il grande piano è la cartina di tornasole di tutti i nodi strutturali del sistema Italia. Ora servono delle scelte coraggiose. Gli errori fin qui commessi attraversano le epoche dei governi Conte, Draghi e Meloni, e sono, in ordine di tempo, sei.
È inutile perdersi in stucchevoli polemiche e in sterili rimpalli di responsabilità, che tra l’altro sono di tutti, è venuto il momento di un deciso colpo di reni. Di fronte ai ritardi nell’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, che mettono a rischio la possibilità non solo di riuscire a mettere fieno nella cascina del pil ma soprattutto di perdere l’occasione più unica che rara di modernizzare il Paese, va fatto un serio esame di coscienza nazionale, perché le ragioni di questo potenziale fallimento chiamano in causa tutti i problemi strutturali dell’Italia, i nodi mai sciolti che ci hanno portato al declino. Siamo ancora in tempo a metterci rimedio, ma occorrono due prerequisiti fondamentali: compiere un’analisi seria e condivisa, senza pregiudizi e scevra da speculazioni politiche, di quanto è accaduto fin qui; avere coraggio e fantasia nell’individuare i rimedi. Provo a fare un esercizio su entrambi i fronti, nel tentativo di fornire qualche utile elemento di riflessione.
Gli errori fin qui commessi attraversano le epoche dei governi Conte, Draghi e Meloni, e sono, in ordine di tempo, i seguenti sei. Primo: all’inizio, epoca Conte, si è badato esclusivamente alla dimensione quantitativa delle risorse che l’Europa ci concedeva, senza avere la ben che minima idea di cosa farne e quindi senza rendersi conto che occorreva un piano strategico e non un semplice elenco di voci di spesa da sostenere. L’unica cosa che importava era sfruttare mediaticamente il risultato, che indubbiamente c’è stato, di aver convinto i paesi riottosi a far partire il Recovery e sbandierare i 209 miliardi, cui si aggiungevano altri fondi Ue per arrivare a circa 350 miliardi, come fossero una preda cacciata. Secondo: la stesura del Pnrr, epoca Draghi, è arrivata a sommare qualcosa come 171 mila progetti e progettini – di cui finora ne sono stati realizzati solo l’1% – mettendoci dentro di tutto di più, dai campi per giocare a padel ai cimiteri. Una follia in sé, resa ancora più grave dalla assoluta mancanza di una gerarchia basata sul livello di strategicità dei progetti. Terzo (sempre epoca Draghi): le riforme richieste dall’Europa come conditio sine qua non per erogare i finanziamenti sono state fatte, ma proprio perché vissute come un obbligo e non come un’opportunità, risultano gusci vuoti. In parte perché parziali e poco coraggiose, e in parte perché nominali, scritte per rimanere sulla carta e non per essere davvero incisive.
Quarto errore: in nessun momento si è mai pensato che la scrittura e l’attuazione del Pnrr richiedessero un metodo e una prassi da “unità nazionale”, neppure quando c’era un governo tecnico sostenuto da una larga parte delle forze politiche e parlamentari. Invece, era e resta un requisito fondamentale, per evitare che sull’altare della competizione politica – che in Italia è continua, come se si fosse in una campagna elettorale permanente, e per di più aggravata dal virus letale del populismo – venga sacrificata la continuità dei progetti e la velocità del loro avanzamento. Quinto: non è stata sollevata da nessuno, tranne che, pur troppo timidamente, dall’attuale governo, la questione culturale che da noi sottende la realizzazione delle opere, grandi o piccole che siano. Parlo, da un lato, del “no” per principio a qualunque opera, che a sua volta si articola in un “no sempre e comunque” a cura di una minoranza rumorosa che non trova un adeguato controcanto (dove sono finiti i comitati pro Tav che pure per un momento hanno trovato il coraggio di scendere in piazza?), e in un “ok, ma non nel mio giardino”, che è invece ad appannaggio di una vastissima fetta di opinione pubblica. E parlo, dall’altro lato, di un diffuso pregiudizio ideologico secondo il quale in ogni appalto si annida una sicura fonte di corruzione, che va preventivamente stroncata se non impedendo la costruzione dell’opera in assoluto, di certo alzando l’asticella degli ostacoli che si frappongono sul suo iter, finendo per allungarne a dismisura i tempi e i costi di realizzazione.
Ultima ma probabilmente più decisiva di tutte è una questione strategica che avrebbe dovuto accompagnare il percorso del Pnrr: risolvere alcune questioni dirimenti senza le quali l’attuazione sarebbe stata difficile, per non dire impossibile. Si dirà: ma queste sono le famose riforme strutturali che Bruxelles ha voluto fossero inserite nel Pnrr. Sì e no. Sì se ci si riferisce alla riforma della giustizia, che peraltro prima Cartabia ha solo abbozzato e che ora Nordio ha solo evocato. No, se ci si riferisce ad almeno quattro questioni dirimenti. La prima è quella della pubblica amministrazione, la quale è stata fin qui sottoposta ad una serie di riforme più di carattere simbolico che altro – i vari “decreti semplificazione” non hanno mai spazzato via la “sabbia procedurale” che blocca ogni cosa – ma mai ad una revisione radicale che faccia della semplificazione delle norme (a monte) e dei metodi operativi (a valle) i suoi obiettivi centrali. D’altra parte, una vera riforma della PA non si può realizzare se non s’interviene in modo altrettanto radicale sull’articolazione del nostro decentramento amministrativo e sulla conseguente ripartizione delle competenze tra Stato centrale ed enti locali. Dunque, il secondo intervento con cui andava (e tuttora andrebbe) accompagnato il Pnrr è la controriforma del titolo V, operando un coraggioso sfoltimento del numero dei Comuni e dell’esistenza in vita tra Regioni e Province. Chi mi legge da tempo sa a quale modello mi riferisco, ma al di là delle mie specifiche proposte resta comunque la necessità di un’architettura istituzionale più snella e funzionale. La terza questione è quella della politica industriale. Non si affronta un gigantesco (quantomeno per le stitiche abitudini italiane) piano di investimenti infrastrutturali senza essere dotati – e se si è sprovvisti, come è in effetti nel nostro caso, si provvede alla bisogna – di un sistema di imprese non dico ottimale ma almeno sufficiente. Per questo andavano aiutate a crescere le poche imprese che abbiamo, e fatte nascere realtà nuove. Ma oltre alla imprese – e siamo al quarto nodo non sciolto – mancano anche i lavoratori. Può sembrare paradossale, visto che abbiamo il tasso degli occupati sul totale della popolazione in età lavorativa tra i più bassi in Europa, ma oggi le aziende non sanno dove sbattere la testa, sia che riguardi manodopera qualificata sia che riguardi manovalanza.
Detto tutto questo e giunti a questo punto, che cosa può concretamente fare il governo Meloni per evitare un disastro, di cui peraltro porterebbe la firma ma avrebbe una responsabilità non certo esclusiva? Due cose l’ha già fatte: istituire una cabina di regia unica mettendola nelle mani giuste (Fitto è un ottimo ministro, forse il migliore di questo governo), e portare a compimento la riforma del Codice degli appalti, sulla quale si possono avanzare alcune riserve specifiche ma che di sicuro ha il merito di aver rotto dei tabù (si veda la War Room di martedì 4 aprile, qui il link). Non siamo ancora ad un sistema ideale di poche e semplici regole che facilitino il lavoro degli onesti e puniscano i disonesti in modo esemplare, ma è meglio di niente. Se ora Meloni si decidesse a sciogliere le briglie che sono state messe alla riforma organica della giustizia che ha in mente Nordio, della quale un pezzo importante è quella relativa alla giustizia civile, l’effetto della revisione del Codice degli appalti sarebbe ancora più significativo. Poi c’è da decidere se mantenere l’intero impianto del Pnrr o se ridimensionarlo. Io penso che sarebbe meglio mantenere l’ammontare complessivo delle risorse ma ridurre drasticamente il numero dei progetti, aumentando la portata e la strategicità di quelli prescelti (anche con l’inserimento di nuovi).
Infine, c’è da affrontare i quattro nodi di cui ho parlato prima. Certo, il tempo che abbiamo per realizzare il Pnrr è poco e quelli sono nodi complessi da affrontare. Ma avere le idee chiare – presentate in modo organico agli italiani – e iniziare a metterle a terra, sarebbe tanta roba. Se poi ci fosse anche un po’ di coraggio cui la politica italiana ci ha disabituato, sarebbe ancora meglio. Mi permetto di dare due idee forti, una costruens e l’altra destruens. La prima: ricostruiamo l’Iri. L’ubriacatura liberista è finita e, per non lasciare che al suo posto si affermi un dirigismo di quart’ordine senza la cultura e gli strumenti necessari ad affermare un ruolo di indirizzo strategico dello Stato laddove c’è da colmare le lacune del mercato – meglio dotarsi dello strumento giusto. Per ora mi fermo a questa suggestione, ma mi riprometto di tornare sull’argomento in modo più completo. La seconda: aboliamo l’Anac, l’autorità nazionale anticorruzione. Ho sempre pensato che la sua nascita sia stato un grave errore (perché dava per scontata la moralistica equazione “business = malaffare”) e peggio è stata la sua esistenza in vita, fino all’improvvida uscita, poi parzialmente ritrattata, dell’attuale presidente, Giuseppe Busia, secondo cui le regole più leggere del nuovo Codice favorirebbero il diffondersi della corruzione. Ora, confortato dal parere del professor Giulio Sapelli (“uno Stato serio non ha bisogno dell’Anac, significa delegare l’amministrazione ai pm”), penso che occorrerebbe rimuovere uno dei motivi di ritardo se non di blocco dell’attività economica.
Insomma, ora che per via del Pnrr tutti i nodi del sistema Italia sono venuti al pettine – da un decentramento amministrativo elefantiaco e inefficiente ad una burocrazia anelastica e farraginosa, dalla mancanza di personale qualificato nella pubblica amministrazione ad un numero sempre più ridotto di imprese italiane di primo livello, dalla deriva panpenalista delle gare pubbliche e più in generale dell’attività economica all’incapacità di fare riforme che, pur danneggiando qualche corporazione, potrebbero dare impulso allo sviluppo – si abbia la lungimiranza e la determinazione di riesumare lo spirito del Secondo Dopoguerra. Sapendo che per affrontare una grande emergenza – e la realizzazione del Pnrr lo è – non servono i commissari straordinari, serve l’unità d’intenti. Lo ha suggerito anche un uomo oggi all’opposizione, ma saggio ed equilibrato come il presidente Casini: in un tanto nobile quanto finora inascoltato appello all’insegna della responsabilità nazionale ha detto che “per non sprecare i fondi pubblici serve un armistizio tra destra e sinistra”. Una collaborazione tra le diverse parti politiche e tra i diversi livelli istituzionali ed amministrativi dello Stato. Meloni non abbia paura di uscire dagli schemi: massimizzare il risultato sul Pnrr significa minimizzare il fardello che graverà sulle spalle delle prossime generazioni. Non sarebbe un risultato di poco conto per la prima donna a palazzo Chigi.
Enrico Cisnetto
https://www.pensalibero.it/pnrr-e-i-ritardi-dellitalia/