Sandro Pertini oltre il mito
Sandro Pertini oltre il mito
Scritto da Stefano Piri
Il fatto che, a leggere i giornali, uno dei principali titoli di merito del nuovo Presidente della Repubblica Sergio Mattarella sia quello di girare in Panda, non rimarca soltanto l’ennesimo scivolamento delle istituzioni verso un discutibile simbolismo impiegatizio. Rappresenta anche il compimento di un percorso iniziato quasi 40 anni fa, quando un inquilino del Colle fu disarcionato da una campagna giornalistica e il suo successore capì che, per non rischiare di fare la stessa fine, avrebbe dovuto di quando in quando scendere spontaneamente di sella e camminare nel fango con la folla. Si tratta naturalmente di Sandro Pertini, probabilmente il più popolare tra presidenti della nostra Repubblica, in rapporto ai tempi il più fotografato, nonché ad oggi senz’altro il più rimpianto.
Da ultima è stata la new Lega di Salvini, la sera di San Silvestro, a trasmettere su Radio Padania il discorso di Pertini del 1983 al posto della diretta di Napolitano. E da tempo il sorriso del presidente partigiano ricorre nel blog di Beppe Grillo e nell’immaginario del Movimento 5 Stelle, anche quando si tratta di schierarlo in modo un po’ temerario a patrocinio della libertà di espressione di Forza Nuova. Negli anni d’oro persino Berlusconi raccontava che durante un colloquio al Colle nel 1980 Pertini gli avrebbe vaticinato un futuro “da questa parte della scrivania” (ma non sappiamo se il tono fosse quello dell’investitura).
Insomma, nel complesso gioco di simboli e controsimboli della politica italiana la figura di Pertini sembra suscitare una nostalgia trasversale, rimbalzando sui social network dove spopola la sua fotografia affiancata a un bellicoso virgolettato sul diritto dei popoli a cacciare i cattivi governi “anche con mazze e pietre”, che naturalmente non si è mai sognato di pronunciare.
Eppure non sempre i contemporanei furono altrettanto apologetici: si ricordano spesso il telegramma di auguri che gli inviò Montanelli (“Che Dio le conceda il coraggio, Presidente, di fare le cose che si possono e si debbono fare; l’umiltà di rinunziare a quelle che si possono ma non si debbono, e a quelle che si debbono ma non si possono fare; e la saggezza di distinguere sempre le une dalle altre”), spesso e volentieri citato da Marco Travaglio, e gli elogi che ne aveva ne aveva tessuto in precedenza (“Non è necessario essere socialisti per amare Pertini. Qualunque cosa egli dica o faccia, odora di pulizia, di lealtà e di sincerità”) ma ben più di rado si citano l’irridente ritratto che ne fece anni dopo, ricordandolo come “certamente un uomo onesto, coraggioso e coerente con le proprie idee (anche perché ne aveva pochissime)” e la lapidaria chiosa “non c’è da vergognarsi di avere avuto un Presidente come Pertini. Ma non vedo cosa ci sia da ricordarne”.
Opinioni queste ultime a dire il vero non cosi isolate. Di Pertini parlavano malissimo i rivali politici, Craxi in primis, ma sorprendentemente non è difficile trovare giudizi affilati espressi anche dai suoi amici e alleati.
Pietro Nenni, che a Pertini era legato da una profonda amicizia e dalla militanza di una vita, sempre stando a Montanelli, raccontava: “Io non sono certamente un uomo di cultura e alla cultura non attribuisco, per un politico, una decisiva importanza. Ma qualcosa so, qualche libro l’ho letto, anche grazie a Mussolini quando mi mandò al confino a Ponza. C’era anche Sandro. Lui, l’unica cosa che leggeva era L’Intrepido. Il resto del tempo lo passava a giocare a briscola o a scopa coi nostri guardiani. Alle nostre discussioni sul futuro dell’Italia e del partito non partecipava quasi mai, e quando lo faceva, era solo per invocare il popolo sulle barricate, per lui la politica era solo quella” (L’Intrepido, per la cronaca, era un giornalino a fumetti).
D’altra parte, va detto che la mitologia di Pertini si fonda su una biografia quasi inattaccabile: nato in provincia di Savona, classe ’96. Combatté la prima guerra mondiale sul fronte dell’Isonzo, “sebbene la avversassi, mi comportai con grande senso di responsabilità”. Dopo la guerra si iscrisse al Partito Socialista e divenne turatiano, si laureò in giurisprudenza e iniziò a lavorare come avvocato. Nel ’25 fu arrestato per la prima volta per aver stampato e distribuito volantini contro il regime fascista. Nel ’26 fuggi in Francia dove prosegui l’attività antifascista fino al ’29, quando rientrò in Italia e venne nuovamente arrestato e condannato a 10 anni di carcere.
Quando la madre fece domanda di grazia alle autorità del fascio, Pertini scrisse un pezzo della sua futura leggenda rifiutando con sdegno (“Perché mamma, perché? … mi sento umiliato al pensiero che tu, sia pure per un solo istante, abbia potuto supporre che io potessi abiurare la mia fede politica pur di riacquistare la libertà …”) e così restò in carcere e poi al confino a Ponza e a Ventotene fino al ’43.
Libero poco prima dell’8 settembre, partecipò alla lotta partigiana e rappresentò il PSIUP nella giunta militare del CLN, fu arrestato dai tedeschi e riuscì a fuggire poco prima di essere fucilato. Guidò l’insurrezione di Milano ed ebbe un ruolo centrale nell’arresto e nell’esecuzione di Mussolini. Negli anni della prigionia e della resistenza perse la madre e due fratelli.
Nel dopoguerra, da dirigente del PSI si oppose all’amnistia e alla strategia del Fronte Popolare, ma negli anni successivi fu sempre a favore dell’unità di azione con il PCI, e quindi contro al centro-sinistra. Tra i momenti memorabili della prima parte della sua militanza repubblicana vi è senz’altro il comizio “del bricchettu” (fiammifero) del 28 giugno ’60 a Genova, chiamato così perché incendiò la rivolta contro il congresso MSI e il governo Tambroni che sarebbe scoppiata due giorni dopo. Non gli mancò mai il coraggio nel rivendicare le scelte fatte in tempo di guerra. Fu sempre molto netto nell’avocare al CLN la decisione della fucilazione di Mussolini e l’assenso a posteriori all’attentato di via Rasella.
Mentre lo stile colorito e l’avventatezza delle esternazioni lo portarono ad un crescente isolamento nel partito (“cuor di leone, cervello di gallina” diceva di lui Lombardi), la sua figura crebbe lentamente ma ininterrottamente in prestigio istituzionale. Già capogruppo del PSI al Senato, nel 1968 fu eletto presidente della Camera e lo rimase per due legislature, fino al 1976, conservando uno stile irrituale che contribuì ad accrescerne la popolarità. Gli odierni attivisti anti-casta ricordano di quel periodo –naturalmente – il tonante rifiuto di Pertini a firmare un aumento dell’indennità dei deputati (“Ma come, dico io, in un momento grave come questo, quando il padre di famiglia torna a casa con la paga decurtata dall’inflazione … voi date quest’esempio d’insensibilità?”).
Nel 1978 Giovanni Leone, con sei mesi d’anticipo, si dimise da presidente della Repubblica a seguito del famigerato libello Giovanni Leone. La carriera di un presidente con cui Camilla Cederna inaugurò un florido e a tutt’oggi nutritissimo filone di giornalismo allusivo e sputtanante. Le accuse della Cederna avevano prodotto una fortissima impressione nell’opinione pubblica e solo molti anni dopo, a immagine pubblica e carriera politica di Leone ormai compromesse, si sarebbero rivelate del tutto infondate.
In ogni caso la reputazione di integrità dell’ottantaduenne Pertini ne fece fin da subito per contrasto un naturale candidato alla successione al Colle. Contro di lui sembravano invece deporre i pessimi rapporti col suo stesso partito e con l’ormai segretario-padrone Craxi, l’ultimo aspro dissenso con il quale si era verificato durante il sequestro Moro, pochi mesi prima, quando Pertini si era discostato dalla linea della trattativa per diventare uno dei più autorevoli esponenti di quella della fermezza. Per bruciarlo – così si dice – Craxi prima della sesta votazione lo indicò come candidato unitario delle sinistre. Pertini sentì puzza di bruciato e si sottrasse immediatamente, chiedendo una convergenza più ampia. I socialisti allora candidarono Giolitti, a cui i repubblicani contrapposero Ugo La Malfa. I veti incrociati fecero cadere tutte le candidature, finché Zaccagnini non annunciò che la DC non si sarebbe opposta alla candidatura di Pertini, che rientrò a Roma (si era allontanato dicendosi fuori dai giochi) e venne eletto l’8 luglio al sedicesimo scrutinio, con la più ampia maggioranza della storia repubblicana.
L’ampia e già consolidata popolarità di Pertini, strettamente legata alla sua immagine di eroe dell’antifascismo, gli consentirono di interpretare la nuova funzione con una disinvoltura che a tratti sfiorò la spregiudicatezza. Se ne ricorda ad esempio il duro attacco alla classe politica all’indomani del terremoto dell’Irpinia, quando fu tra i primi ad arrivare sul luogo e si lanciò in una commossa requisitoria sulle mancanze di quel parlamento di cui, a ben guardare, fino a poco tempo prima aveva presieduto una delle camere.
Nell’81 si precipitò a Vermicino a partecipare del dramma in diretta TV di Alfredino Rampi. Per dirla di nuovo con Montanelli “Non perdeva occasione di dare spettacolo seguendo in lacrime tutti i funerali, baciando torme di bambini, e insomma toccando sempre quel tasto del patetico a cui noi italiani siamo particolarmente sensibili”.
Quando l’Italia vinse i mondiali di calcio di Spagna ’82 fece un capolavoro di improvvisazione, con l’esultanza sugli spalti, il settebello in aereo con Bearzot e la studiatissima coreografia dell’atterraggio, con Pertini che scese dalla scaletta per primo, si posizionò al centro della squadra di fronte ai fotografi ma rifiutò ad alta voce di innalzare la coppa: “l’hanno vinta loro, non io!”
Forse anche in questo modo gli riuscì di instaurare con il popolo una connessione sentimentale senza precedenti che dal suo ruolo istituzionale sconfinava nel pop. Finì nelle canzonette, anzi nella canzonetta delle canzonette (l’Italiano di Cotugno: “… e un partigiano come presidente”) e nelle canzoni d’autore (Venditti), disse “Bravo!” a Montesano e Andrea Pazienza ne fece un eroe dei fumetti. A Washington baciò la bandiera degli Stati Uniti prima di sedere a colloquio con Reagan.
Reinterpretò la norma sui senatori a vita nominandone 5 oltre ai due già in carica, tra cui Eduardo De Filippo e Norberto Bobbio, e fu il primo a fare un uso fortemente politico del “potere di esternazione”, come dopo di lui Cossiga e ai giorni nostri Giorgio Napolitano.
“Lo porto via con me a Roma. Lo porto via, come un amico fraterno, come un figlio, come un compagno di lotta” furono le sue parole sul letto di morte di Berlinguer, e le sue lacrime sul feretro del segretario comunista – Achille e Patroclo in un oceano di bandiere rosse – impastarono l’epica di un paio di generazioni di militanti e intellettuali di sinistra.
Intanto un’assordante babele di fischi rispediva a casa Bettino Craxi, che non la prese bene. Dopo le europee stravinte dal PCI incontrò Pertini in compagnia di Martelli, e quest’ultimo (“il moccioso”, come lo chiamava Pertini) disse al presidente che il PCI aveva guadagnato un punto perché era morto Berlinguer e un altro perché lui ne aveva scortato il feretro a Roma. Pertini allora rispose: “voi due fate una cosa, tornate a Verona, suicidatevi sulla tomba di Giulietta e io vi riporto a Roma in aereo. Vediamo quanti voti prende il PSI”.
La partecipazione ai funerali per lui non fu comunque mai una banalità, visto che nell’85 si sarebbe precipitato a Mosca a piangere sulla tomba di Cernenko attirandosi non poche polemiche, e nell’88 avrebbe reso visita alla camera ardente di Giorgio Almirante.
Al termine di un settennato a dir poco movimentato, alla soglia degli 89 anni di età, Pertini non fece grande sforzo per nascondere la sua aspirazione ad un secondo mandato, ma fu garbatamente ignorato. Si riteneva – allora – che la costituzione materiale prevedesse un solo mandato a presidente.
Dopo cinque anni da senatore a vita vissuti allontanandosi dalla politica dei partiti ma continuando a partecipare a manifestazioni e aderire a campagne progressiste, si spense nel 1990 a 93 anni. Con un articolo sul Messaggero, Giulio Andreotti ne commemorò la segreta religiosità.
Ciò che nelle analisi a posteriori rischia di andare perduto è l’indubbio fascino di Pertini, il magnetismo mercuriale di quell’uomo colto e nervoso che colpì Oriana Fallaci e la spinse a introdurre così l’intervista a Pertini del ’73: “L’uomo non ha bisogno di presentazioni. Si sa tutto su Sandro Pertini, presidente della Camera. Si conosce il suo bel passato di antifascista condannato all’ergastolo e a morte, il suo bel presente di socialista privo di fanatismi e di dogmi, il suo coraggio, la sua onestà, la sua dignità, la sua lingua lunga. Nessun segreto da svelare su questo gran signore che della libertà ha fatto la sua religione, della disubbidienza il suo sistema di vita, del buon gusto la sua legge. Nessuna scoperta da annunciare su questo gran vecchio dilaniato dalle dolcezze e dai furori, collerico, impertinente, elegante di dentro e di fuori, con quelle giacche sempre impeccabili, quei pantaloni sempre stirati, quel corpo minuto, fragile, che nemmeno le legnate degli squadristi riuscirono a frantumare. È noto che ama la moglie, i quadri d’autore, le poesie, la musica, il teatro, la cultura, che è un uomo di cultura e uno dei pochissimi politici di cui possiamo andar fieri in Italia”.
Pertini era anche e soprattutto un politico capace di aprire quell’intervista citando L’ora del lupo di Bergman e di proseguire raccontando con civetteria come avesse respinto un invito del questore di Milano Guida, non perché questi aveva diretto la colonia di Ventotene ai tempi del fascismo, ma per i sospetti che gravavano su di lui in relazione alla morte di Pinelli.
Non sorprende quindi a ben pensarci che una mistica dell’intransigenza come Fallaci nutrisse una sbilanciata ammirazione per questo ligure fumantino e caustico.
Una certa agiografia tende a ricostruire l’elezione di Pertini al Colle come l’imponderabile affermazione di un outsider, una variabile sfuggita al controllo dei partiti (“non ha mai capito granché di politica politicante” Travaglio dixit) e piombata sulla scena pubblica con una missione moralizzatrice. In realtà, ben lontano da un fool shakespeariano o da un Azdak brechtiano, Pertini fu un politico abilissimo e straordinariamente moderno nel coglier in anticipo l’assottigliarsi delle barriere di intermediazione.
A far cadere il sottile velo di certe narrazioni favolesche basterebbe un passaggio della sopracitata intervista a Fallaci, in cui l’allora presidente della camera, come un democristiano da fenotipo, nega risolutamente la sua ovvia aspirazione: “Non mi sarei proprio sentito a mio agio, lì al Quirinale! Infatti ogni volta che qualcuno tentava di farmi eleggere, io appoggiavo un altro candidato”.
Non avrebbe naturalmente alcun senso mettere in questione “l’autenticità” di Pertini, sia perché la sua militanza e il suo percorso di vita lo pongono al di sopra di qualsiasi insinuazione, sia perché il concetto stesso di autenticità è fondamentalmente reazionario e buono solo per i moralisti. È importante però cercare di restituire un po’ di tridimensionalità ad una figura che – come molte altre – rischia nell’annebbiarsi della memoria di vedersi ridotta all’immagine piatta di una fotografia e a un paio di virgolettati pigri e per giunta apocrifi.
Di certo Montanelli aveva torto almeno su una cosa: di Pertini, da ricordare, c’è molto, e in questo molto ci sono i germogli del rapporto moderno tra gli italiani e le loro istituzioni, che il presidente partigiano seppe intuire in anticipo e interpretare molto più aggressivamente di molti dei sopraffatti leader odierni.
Scritto da
Stefano Piri
Questo post ha 5 commenti
Estratto da www.lavocedilucca.it/post/9244/sandro-pertini-oltre-il-mito.php