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  • 04/12/2023 16:57

Quello che la resistenza palestinese dice alle masse popolari italiane

Ci sono avvenimenti che per la portata storica che hanno, indipendentemente dal luogo in cui accadono, parlano a tutti. Ogni individuo recepisce il messaggio a seconda degli strumenti interpretativi che ha, ma in definitiva sono solo due i modi per recepire la realtà: quello della classe dominante, la borghesia imperialista, oppure quello delle masse popolari. Le pur numerose sfumature, i se, i ma, i distinguo, sono irrilevanti sul piano storico e poco rilevanti dal punto di vista politico. La borghesia imperialista, benché in declino, è ancora la classe dominante di questa epoca e questo comporta che la sua concezione del mondo, e di conseguenza il modo con cui si interpreta la realtà, sia quella dominante. Ciò significa che anche le masse popolari ne sono influenzate. Ci sono molti esempi di questo: gli operai che “parlano e ragionano come il padrone”, gli italiani poveri che incolpano gli immigrati anziché i capitalisti della propria povertà, gli elementi delle masse popolari che si illudono di poter godere del benessere, delle comodità e della sicurezza che i ricchi pretendono per loro e in nome di quella illusione parlano e pensano come la classe dominante e diventano promotori dei suoi interessi. Nonostante tutto, ci sono avvenimenti che hanno un tale impatto sulla realtà da costringere tutti a schierarsi, a decidere il modo con cui leggerli e recepire il messaggio che portano con sé. L’offensiva che la resistenza palestinese ha condotto contro lo Stato d’Israele il 7 ottobre è uno di questi. La resistenza palestinese ha raggirato il più esteso e sviluppato sistema di controllo del mondo, ha eluso il più sofisticato servizio segreto del mondo, ha sbaragliato il secondo esercito più equipaggiato, armato e tecnologicamente avanzato del mondo e ha sferrato un colpo durissimo all’apparato militare sionista. La borghesia imperialista ha recepito il messaggio in modo forte e chiaro: quali che siano le misure repressive e di controllo, per quanto brutale possa essere l’oppressione, le masse popolari non possono essere soffocate; per quanto il nemico sia forte, finché resta in piedi il sistema di dominio della classe dominante le masse popolari si ribellano e si ribelleranno. I massacri che i sionisti stanno compiendo in Palestina, la barbara rappresaglia che avviene con il sostegno degli imperialisti Usa e le timide dissociazioni della Ue e dell’Onu, NON sono una dimostrazione della loro forza, sono invece una dimostrazione della loro debolezza, di paura, preoccupazione e sbandamento. Ai sionisti non basterà “sconfiggere Hamas” né “radere al suolo la Striscia di Gaza” perché finché durerà la loro occupazione durerà anche la resistenza del popolo palestinese. Ecco perché la classe dominante è terrorizzata dal messaggio che il popolo palestinese ha inviato con il contrattacco del 7 ottobre. Adesso la domanda è: il messaggio è stato recepito dalle masse popolari? Di fronte a ogni avvenimento e situazione, la prima domanda da porsi è “a chi giova?”. L’influenza della concezione del mondo della classe dominante espone le masse popolari al rischio di scambiare i loro interessi con i suoi o, almeno, al rischio di farli combaciare (“siamo tutti sulla stessa barca”). In verità, gli interessi delle masse popolari e della borghesia imperialista sono inconciliabili e chi sostiene che “siamo tutti nella stessa barca” racconta favole o spaccia menzogne. In tutto il mondo ci sono manifestazioni di solidarietà con il popolo palestinese e la causa della liberazione della Palestina, anche nei paesi in cui le autorità hanno tentato di vietarle (come in Francia e in Germania). Si può affermare che almeno una parte del messaggio è stata recepita: le classi popolari, tanto nei paesi imperialisti (in “Occidente”) quanto nei paesi oppressi, si sono identificate con la riscossa del popolo palestinese e manifestano solidarietà e vicinanza. Ma la concezione del mondo e le “analisi” della borghesia imperialista sono dominanti nella società – sostenute da una martellante propaganda di regime – pertanto che il messaggio della resistenza palestinese venga recepito integralmente dalle masse popolari, forte e chiaro come lo ha recepito la borghesia imperialista, è uno dei compiti dei comunisti. Anche nel nostro paese. L’Italia non è la Palestina occupata militarmente da quasi ottant’anni, le masse popolari italiane non subiscono l’apartheid, non hanno l’acqua e la corrente razionata, non vivono sotto le bombe o in balia dell’iniziativa dei coloni e dell’esercito. Tuttavia, il contrattacco della resistenza palestinese è un messaggio anche per le masse popolari italiane. Dice che gli imperialisti sono giganti dai piedi di argilla, che resistere è possibile, che contrattaccare è possibile, infliggere colpi fatali al nemico è possibile, anche di fronte a una schiacciante disparità di forze. Dice che nel confidare nella buona volontà, nelle buone intenzioni e nelle promesse della classe dominante c’è tutto da perdere e nulla da guadagnare. Dice, infine, che solo le masse popolari organizzate possono mettere fine al corso disastroso delle cose. Ci sono numerose possibilità di riportare il messaggio alle condizioni specifiche e particolari del nostro paese. Ne scegliamo una: sperare nel meno peggio e aspettare che le cose passino apre le porte al peggio. Se il popolo palestinese avesse aspettato e sperato nell’azione dell’Onu, dopo che i sionisti hanno violato settanta risoluzioni, non avrebbe scongiurato i bombardamenti, le deportazioni, l’embargo. Sarebbe continuato tutto, solo in modo più “diluito”, sotto gli occhi semi chiusi (o compiacenti) della Comunità Internazionale. Ecco come la resistenza palestinese parla agli operai e ai lavoratori italiani. Aspettiamo un’altra strage sul lavoro come la Thyssen nel 2007 o la strage di Brandizzo dello scorso agosto? Aspettiamo che chiudano altre aziende e che altre migliaia di famiglie siano minacciate dalla povertà, mentre i padroni fanno affari? Ecco come la resistenza palestinese parla agli studenti. Aspettiamo che muoiano altri ragazzi e ragazze per l’alternanza scuola lavoro o sotto il crollo di un soffitto? Ecco come parla alle popolazioni che hanno subito gli effetti di un terremoto o di un’alluvione: aspettiamo un altro cataclisma o un’altra alluvione per avanzare con la ricostruzione, i risarcimenti, la messa in sicurezza del territorio e il sostegno alle famiglie? Ecco perché la resistenza palestinese parla a tutte le masse popolari: aspettiamo che la Comunità Internazionale degli imperialisti Usa, dei sionisti e degli imperialisti europei trascini il mondo in un’altra guerra mondiale? Aspettiamo che siano chiusi gli ospedali pubblici e che le cure siano definitivamente una merce accessibile solo a chi può pagare? Aspettiamo che la crisi ambientale renda invivibili parti del pianeta e del paese e renda la vita incompatibile con le condizioni climatiche? Aspettare che tutto passi è il modo più efficace affinché tutto degeneri. Togliamo subito il sorrisetto sciocco dal viso di chi vuole deliberatamente fraintendere il messaggio: le masse popolari italiane non devono sorvolare con il parapendio Montecitorio o il Quirinale o sparare razzi sull’Agenzia delle Entrate! Quello di cui stiamo parlando è capire bene il messaggio di riscossa che ha mandato il popolo palestinese: bisogna organizzarsi! All’oppressione, allo sfruttamento, alla speculazione, al saccheggio e alla rapina che la classe dominante conduce senza ritegno o remora, le masse popolari possono rispondere solo con l’organizzazione e la mobilitazione, solo dandosi i mezzi per rovesciare la classe dominante, le sue autorità e le sue istituzioni e diventare loro la classe dirigente del paese e della società. Chiunque sostiene che “il nemico è troppo forte” non ha capito a fondo il messaggio che la resistenza palestinese ha mandato alle masse popolari del mondo – anche a quelle italiane. Oppure si presta a fare da megafono alla propaganda disfattista della borghesia imperialista. Perché non esiste classe dominante abbastanza debole da essere vinta e non esistono masse popolari abbastanza forti da vincere se neppure ci si organizza per iniziare a combattere. Carc. It

I commenti

Nel 1947 l'ONU decise che Israele poteva esistere e nel 1948 Ben Gurion proclamò lo stato di Israele. Gli arabi hanno fatto settantacinque anni di guerre, ma non sono riusciti a distruggere Israele. Intelligenza vorrebbe che gli arabi prendessero atto dell'esistenza di Israele e ci convivessero pacificamente. Invece preferiscono continuare. Non so se distruggeranno mai Israele, ma una cosa è chiara e l'altra è possibile. La cosa chiara e sicura è che gli israeliani combatteranno fino alla morte per non farsi buttare in mare e uccideranno tutti gli arabi che potranno per evitare di farsi buttare in mare. Oltre a questo Israele ha armi nucleari, per cui la cosa possibile è che prima di essere distrutta le userebbe certo contro i suoi nemici. Questi fatti dovrebbero portare consiglio. Il problema è che ad Hamas o ad Hezbollah non importa nulla del popolo arabo. Anzi per loro più gente muore e meglio è. I morti arabi sono funzionali alla propaganda e alla politica; a loro dei morti arabi non frega un bel niente. Se vogliono guerra, guerra avranno.

anonimo - 05/12/2023 18:58

Un libro tante sono le eferratezze

Fly - 05/12/2023 13:34

Si è dimenticato della Risoluzione ONU n. 181 del 29 novembre 1947.
Probabilmente errore catastrofico in eterno.
Anche se il quei luoghi è inferno da almeno due millenni, ed oltre, col senno del poi, se l'ONU (Leggi USA) in quella Risoluzione avesse dato uno Stato dei suoi cinquantuno Stati, come 'Terra promessa', adesso probabilmente sarebbe altro paio di maniche, e forse ci sarebbero stati meno morti.
Come sono messi, non avranno mai pace, visto che entrambi i belligeranti la considerano, e la considereranno in eterno, casa propria.

... - 05/12/2023 11:34

Stupendo, ma ha postato un libro intero.

anonimo - 05/12/2023 10:57

Risoluzioni ONU
1951 - 2016 PRINCIPALI RISOLUZIONI DEL CONSIGLIO DI SICUREZZA DELLE NAZIONI UNITE

RISOLUZIONE N. 93 (18 MAGGIO 1951) - Il Consiglio di Sicurezza decide che ai civili arabi che sono stati trasferiti dalla zona smilitarizzata dal governo di Israele deve essere consentito di tornare immediatamente nelle loro case e che la Mixed Armistice Commission deve supervisionare il loro ritorno e la loro reintegrazione nelle modalita' decise dalla Commissione stessa.
RISOLUZIONE N. 101 (24 NOVEMBRE 1953) - Il Consiglio di Sicurezza ritiene che l'azione delle forze armate israeliane a Qibya del 14 - 15ottobre 1953 e tutte le azioni simili costituiscano una violazione del cessate il fuoco (risoluzione 54 del Consiglio di Sicurezza dell'ONU); esprime la più forte censura per questa azione, che può pregiudicare le possibilità di soluzione pacifica; chiama Israele a prendere misure effettive per prevenire tali azioni.
RISOLUZIONE N. 106 (29 MARZO 1955) - Il Consiglio di Sicurezza osserva che un attacco premeditato e pianificato ordinato dalle autorità israeliane è stato commesso dalle forze armate israeliane contro le forze armate egiziane nella Striscia di Gaza il 28 febbraio 1955 e condanna questo attacco come una violazione del cessate il fuoco disposto dal Consiglio di Sicurezza dell'ONU.
RISOLUZIONE N. 111 (19 GENNAIO 1956) - l Consiglio di Sicurezza ricorda al governo israeliano che il Consiglio ha già condannato le azioni militari che hanno rotto i Trattati dell'Armistizio Generale e ha chiamato Israele a prendere misure effettive per prevenire simili azioni; condanna l'attacco dell'11 dicembre 1955 sul territorio siriano come una flagrante violazione dei provvedimenti di cessate il fuoco della risoluzione 54 (1948) e degli obblighi di Israele rispetto alla Carta delle Nazioni Unite; esprime grave preoccupazione per il venire meno ai propri obblighi da parte del governo israeliano.
RISOLUZIONE N. 127 (22 GENNAIO 1958) - Il Consiglio di Sicurezza raccomanda ad Israele di sospendere la "zona di nessuno" a Gerusalemme.
RISOLUZIONE N. 162 (11 APRILE 1961) - Il Consiglio di Sicurezza chiede urgentemente ad Israele di rispettare le decisioni delle Nazioni Unite.
RISOLUZIONE N. 171 (9 APRILE 1962) - Il Consiglio di Sicurezza riscontra le flagranti violazioni operate da Israele nel suo attacco alla Siria.
RISOLUZIONE N. 228 (25 NOVEMBRE 1966) - Il Consiglio di Sicurezza censura Israele per il suo attacco a Samu, in Cisgiordania, sotto il controllo giordano.
RISOLUZIONE N. 237 (14 GIUGNO 1967) - Il Consiglio di Sicurezza chiede urgentemente a Israele di consentire il ritorno dei nuovi profughi palestinesi del 1967.
RISOLUZIONE N. 248 (24 MARZO 1968) - Il Consiglio di Sicurezza condanna Israele per il suo attacco massiccio contro Karameh, in Giordania.
RISOLUZIONE N. 250 (27 APRILE 1968) - Il Consiglio di Sicurezza ingiunge a Israele di astenersi dal tenere una parata militare a Gerusalemme.
RISOLUZIONE N. 251 (2 MAGGIO 1968) - Il Consiglio di Sicurezza deplora profondamente la parata militare israeliana a Gerusalemme, in spregio alla risoluzione 250.
RISOLUZIONE N. 252 (21 MAGGIO 1968) - Il Consiglio di Sicurezza dichiara non valido l'atto di Israele di unificazione di Gerusalemme come capitale ebraica.
RISOLUZIONE N. 256 (16 AGOSTO 1968) - Il Consiglio di Sicurezza condanna gli attacchi israeliani contro la Giordania come flagranti violazioni.
RISOLUZIONE N. 259 (27 SETTEMBRE 1968) - Il Consiglio di Sicurezza deplora il rifiuto israeliano di accettare una missione dell'ONU che verifichi lo stato di occupazione.
RISOLUZIONE N. 262 (31 DICEMBRE 1968) - Il Consiglio di Sicurezza condanna Israele per l'attacco all'aeroporto di Beirut.
RISOLUZIONE N. 265 (1 APRILE 1969) - Il Consiglio di Sicurezza condanna Israele per gli attacchi aerei su Salt in Giordania.
RISOLUZIONE N. 267 (3 LUGLIO 1969) - Il Consiglio di Sicurezza censura Israele per gli atti amministrativi tesi a cambiare lo status di Gerusalemme.
RISOLUZIONE N. 270 (26 AGOSTO 1969) - Il Consiglio di Sicurezza condanna Israele per gli attacchi aerei sui villaggi del Sud del Libano.
RISOLUZIONE N. 271 (15 SETTEMBRE 1969) - Il Consiglio di Sicurezza condanna Israele per non aver obbedito alle risoluzioni dell'ONU su Gerusalemme.
RISOLUZIONE N. 279 (12 MAGGIO 1969) - Il Consiglio di Sicurezza chiede il ritiro delle forze israeliane dal Libano.
RISOLUZIONE N. 280 (19 MAGGIO 1969) - Il Consiglio di Sicurezza condanna gli attacchi israeliani contro il Libano.
RISOLUZIONE N. 285 (5 SETTEMBRE 1970) - Il Consiglio di Sicurezza chiede l'immediato ritiro israeliano dal Libano.
RISOLUZIONE N. 298 (25 SETTEMBRE 1971) - Il Consiglio di Sicurezza deplora che Israele abbia cambiato lo status di Gerusalemme.
RISOLUZIONE N. 313 (28 FEBBRAIO 1972) - Il Consiglio di Sicurezza chiede che Israele ponga fine agli attacchi contro il Libano.
RISOLUZIONE N. 316 (26 GIUGNO 1972) - Il Consiglio di Sicurezza condanna Israele per i ripetuti attacchi sul Libano.
RISOLUZIONE N. 317 (21 LUGLIO 1972) - Il Consiglio di Sicurezza deplora il rifiuto di Israele di rilasciare gli Arabi rapiti in Libano.
RISOLUZIONE N. 332 (21 APRILE 1973) - Il Consiglio di Sicurezza condanna i ripetuti attacchi israeliani contro il Libano.
RISOLUZIONE N. 337 (15 AGOSTO 1973) - Il Consiglio di Sicurezza condanna Israele per aver violato la sovranità del Libano.
RISOLUZIONE N. 347 (24 APRILE 1974) - Il Consiglio di Sicurezza condanna gli attacchi israeliani sul Libano.
RISOLUZIONE N. 425 (19 MARZO 1978) - Il Consiglio di Sicurezza ingiunge a Israele di ritirare le sue forze dal Libano.
RISOLUZIONE N. 427 (3 MAGGIO 1978) - Il Consiglio di Sicurezza chiama Israele al completo ritiro delle proprie forze dal Libano.
RISOLUZIONE N. 444 (19 GENNAIO 1979) - Il Consiglio di Sicurezza deplora la mancanza di cooperazione di Israele con il contingente di peacekeeping dell'ONU.
RISOLUZIONE N. 446 (22 MARZO 1979) - Il Consiglio di Sicurezza determina che gli insediamenti israeliani sono un grave ostacolo alla pace e chiama Israele al rispetto della Quarta Convenzione di Ginevra.
RISOLUZIONE N. 450 (14 GIUGNO 1979) - Il Consiglio di Sicurezza ingiunge a Israele di porre fine agli attacchi contro il Libano.
RISOLUZIONE N. 452 (20 LUGLIO 1979) - Il CS ingiunge a Israele di smettere di costruire insediamenti nei territori occupati.
RISOLUZIONE N. 465 (1 MARZO 1980) - Il Consiglio di Sicurezza deplora gli insediamenti israeliani e chiede a tutti gli stati membri di non sostenere il programma di insediamenti di Israele.
RISOLUZIONE N. 467 (24 APRILE 1980) - Il Consiglio di Sicurezza deplora con forza l'intervento militare israeliano in Libano.
RISOLUZIONE N. 468 (8 MAGGIO 1980) - Il Consiglio di Sicurezza ingiunge a Israele di annullare le espulsioni illegali di due sindaci e un giudice palestinesi, e di facilitare il loro ritorno.
RISOLUZIONE N. 469 (20 MAGGIO 1980) - Il Consiglio di Sicurezza deplora con forza la non osservanza da parte di Israele dell'ordine di non deportare Palestinesi.
RISOLUZIONE N. 471 (5 GIUGNO 1980) - Il Consiglio di Sicurezza esprime grave preoccupazione per il non rispetto da parte di Israele della Quarta Convenzione di Ginevra.
RISOLUZIONE N. 476 (30 GIUGNO 1980) - Il Consiglio di Sicurezza ribadisce che le rivendicazioni israeliane su Gerusalemme sono nulle.
RISOLUZIONE N. 478 (20 AGOSTO 1980) - Il Consiglio di Sicurezza censura con la massima forza Israele per le rivendicazioni su Gerusalemme contenute nella sua "Legge Fondamentale".
RISOLUZIONE N. 484 (19 DICEMBRE 1980) - Il Consiglio di Sicurezza formula l'imperativo che Israele riammetta i due sindaci palestinesi deportati.
RISOLUZIONE N. 487 (19 GIUGNO 1981) - Il Consiglio di Sicurezza condanna con forza Israele per l'attacco alle strutture nucleari dell'Iraq.
RISOLUZIONE N. 497 (17 DICEMBRE 1981) - Il Consiglio di Sicurezza dichiara nulla l'annessione israeliana delle Alture del Golan e chiede ad Israele di annullare immediatamente la propria decisione.
RISOLUZIONE N. 498 (18 DICEMBRE 1981) - Il Consiglio di Sicurezza ingiunge a Israele di ritirarsi dal Libano.
RISOLUZIONE N. 501 (25 FEBBRAIO 1982) - Il Consiglio di Sicurezza ingiunge a Israele di interrompere gli attacchi contro il Libano e di ritirare le sue truppe.
RISOLUZIONE N. 509 (6 GIUGNO 1982) - Il Consiglio di Sicurezza chiede che Israele ritiri immediatamente e incondizionatamente le sue forze dal Libano.
RISOLUZIONE N. 515 (19 GIUGNO 1982) - Il Consiglio di Sicurezza chiede che Israele tolga l'assedio a Beirut e consenta l'entrata di rifornimenti alimentari.
RISOLUZIONE N. 517 (4 AGOSTO 1982) - Il Consiglio di Sicurezza censura Israele per non aver ubbidito alle risoluzioni dell'ONU e chiede ad Israele di ritirare le sue forze dal Libano.
RISOLUZIONE N. 518 (12 AGOSTO 1982) - Il Consiglio di Sicurezza chiede ad Israele piena cooperazione con le forze dell'ONU in Libano.
RISOLUZIONE N. 520 (17 SETTEMBRE 1982) - Il Consiglio di Sicurezza condanna l'attacco israeliano a Beirut Ovest.
RISOLUZIONE N. 573 (4 OTTOBRE 1985) - Il Consiglio di Sicurezza condanna vigorosamente Israele per i bombardamenti su Tunisi durante l'attacco al quartier generale dell'OLP.
RISOLUZIONE N. 587 (23 SETTEMBRE 1986) - Il Consiglio di Sicurezza ricorda le precedenti richieste affinché Israele ritirasse le sue forze dal Libano e chiede con urgenza a tutte le parti di ritirarsi.
RISOLUZIONE N. 592 (8 DICEMBRE 1986) - Il Consiglio di Sicurezza deplora con forza l'uccisione di studenti palestinesi dell'Università' di Birzeit ad opera delle truppe israeliane.
RISOLUZIONE N. 605 (22 DICEMBRE 1987) - Il Consiglio di Sicurezza deplora con forza le politiche e le pratiche israeliane che negano il diritti umani dei Palestinesi.
RISOLUZIONE N. 607 (5 GENNAIO 1988) - Il Consiglio di Sicurezza ingiunge a Israele di non deportare i Palestinesi e gli chiede con forza di rispettare la Quarta Convenzione di Ginevra.
RISOLUZIONE N. 608 (14 GENNAIO 1988) - Il Consiglio di Sicurezza si rammarica profondamente che Israele abbia sfidato l'ONU e deportato civili palestinesi.
RISOLUZIONE N. 636 (14 GIUGNO 1989) - Il Consiglio di Sicurezza si rammarica profondamente della deportazione di civili palestinesi da parte di Israele.RISOLUZIONE N. 641 (30 AGOSTO 1989) - Il Consiglio di Sicurezza deplora che Israele continui nelle deportazioni di Palestinesi.
RISOLUZIONE N. 672 (12 OTTOBRE 1990) - Il Consiglio di Sicurezza condanna Israele per violenza contro i Palestinesi a Haram al-Sharif/Tempio della Montagna.
RISOLUZIONE N. 673 (24 OTTOBRE 1990) - Il Consiglio di Sicurezza deplora il rifiuto israeliano di cooperare con l'ONU.
RISOLUZIONE N. 681 (20 DICEMBRE 1990) - Il Consiglio di Sicurezza deplora che Israele abbia ripreso le deportazioni di Palestinesi.
RISOLUZIONE N. 694 (24 MAGGIO 1991) - Il Consiglio di Sicurezza deplora la deportazione di Palestinesi ad opera di Israele e ingiunge ad Israele di assicurare loro un sicuro e immediato ritorno.
RISOLUZIONE N. 726 (6 GENNAIO 1992) - Il Consiglio di Sicurezza condanna con forza la deportazione di Palestinesi ad opera di Israele.
RISOLUZIONE N. 799 (18 DICEMBRE 1992) - Il Consiglio di Sicurezza condanna con forza la deportazione di 413 Palestinesi da parte di Israele e chiede il loro immediato ritorno.ron il 25 febbraio 1994, durante il Ramadan; gravemente preoccupato dai conseguenti incidenti nei territori palestinesi occupati come risultato del massacro, che evidenzia la necessità di assicurare protezione e sicurezza al popolo palestinese; prendendo atto della condanna di questo massacro da parte della comunità internazionale; riaffermando le importanti risoluzioni sulla applicabilità della Quarta Convenzione di Ginevra ai territori occupati da Israele nel giugno 1967, compresa Gerusalemme, e le conseguenti responsabilità israeliane.
Condanna con forza il massacro di Hebron e le sue conseguenze, che hanno causato la morte di oltre 50 civili palestinesi e il ferimento di altre centinaia e ingiunge ad Israele, la potenza occupante, di applicare misure che prevengano atti illegali di violenza da parte di coloni israeliani, come tra gli altri la confisca delle armi.
RISOLUZIONE N. 1402 (30 MARZO 2002) - Il Consiglio di Sicurezza alle truppe israeliane di ritirarsi dalle città palestinesi, compresa Ramallah.
RISOLUZIONE N. 1403 (4 APRILE 2002) - Il Consiglio di Sicurezza chiede che la risoluzione 1402 (2002) sia applicata senza ulteriori ritardi.
RISOLUZIONE N. 1405 (19 APRILE 2002) - Il Consiglio di Sicurezza chiede che siano tolte le restrizioni imposte, soprattutto a Jenin,alle operazioni delle organizzazioni umanitarie, compreso il Comitato Internazionale della Croce Rossa e l'Agenzia dell'ONU per l'Assistenza e il Lavoro per i Profughi Palestinesi in Medio Oriente (Unrwa).
RISOLUZIONE N. 1435 (24 SETTEMBRE 2002) - Il Consiglio di Sicurezza chiede che Israele ponga immediatamente fine alle misure prese nella città di Ramallah e nei dintorni, che comprendono la distruzione delle infrastrutture civili e di sicurezza palestinesi; chiede anche il rapido ritiro delle forze di occupazione israeliane dalle città palestinesi e il loro ritorno alle posizioni tenute prima di settembre 2000.
RISOLUZIONE N. 1544 (19 MAGGIO 2007) - Il Consiglio di Sicurezza condanna la distruzione da parte di: Israele di abitazioni civili nel campo di rifugiati nella zona di Rafah
RISOLUZIONE N. 1850 (16 DICEMBRE 2008)RISOLUZIONE N. 1850 (16 DICEMBRE 2008) - Il Consiglio di Sicurezza chiede a entrambe le parti di "adempiere ai loro obblighi" e di "astenersi da ogni azione che possa minare la fiducia o pregiudicare l'esito dei negoziati".
RISOLUZIONE N. 1860 (8 GENNAIO DICEMBRE 2009) -

Kibbutz - 05/12/2023 10:22

che non conoscono la storia - o fanno finta- e i massacri di civili avallati/organizzati dai governi israeliani.
COPIO E INCOLLO:

*******Vogliamo ricordare Robert Fisk, scomparso il 30 ottobre, riproponendovi l’articolo che il grande giornalista scrisse quando fu tra i primi ad arrivare nei campi profughi di Sabra e Shatila a Beirut dopo il massacro di migliaia di palestinesi nel settembre del 1982******

di Robert Fisk – settembre 1982

“Furono le mosche a farcelo capire. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l’odore. Grosse come mosconi, all’inizio ci coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti. Se stavamo fermi a scrivere, si insediavano come un esercito – a legioni – sulla superficie bianca dei nostri taccuini, sulle mani, le braccia, le facce, sempre concentrandosi intorno agli occhi e alla bocca, spostandosi da un corpo all’altro, dai molti morti ai pochi vivi, da cadavere a giornalista, con i corpicini verdi, palpitanti di eccitazione quando trovavano carne fresca sulla quale fermarsi a banchettare.

Se non ci muovevamo abbastanza velocemente, ci pungevano. Perlopiù giravano intorno alle nostre teste in una nuvola grigia, in attesa che assumessimo la generosa immobilità dei morti. Erano servizievoli quelle mosche, costituivano il nostro unico legame fisico con le vittime che ci erano intorno, ricordandoci che c’è vita anche nella morte. Qualcuno ne trae profitto. Le mosche sono imparziali. Per loro non aveva nessuna importanza che quei corpi fossero stati vittime di uno sterminio di massa. Le mosche si sarebbero comportate nello stesso modo con un qualsiasi cadavere non sepolto. Senza dubbio, doveva essere stato così anche nei caldi pomeriggi durante la Peste nera.

All’inizio non usammo la parola massacro. Parlammo molto poco perché le mosche si avventavano infallibilmente sulle nostrae bocche. Per questo motivo ci tenevamo sopra un fazzoletto, poi ci coprimmo anche il naso perché le mosche si spostavano su tutta la faccia. Se a Sidone l’odore dei cadaveri era stato nauseante, il fetore di Shatila ci faceva vomitare. Lo sentivamo anche attraverso i fazzoletti più spessi. Dopo qualche minuto, anche noi cominciammo a puzzare di morto.

Erano dappertutto, nelle strade, nei vicoli, nei cortili e nelle stanze distrutte, sotto i mattoni crollati e sui cumuli di spazzatura. Gli assassini – i miliziani cristiani che Israele aveva lasciato entrare nei campi per «spazzare via i terroristi» – se n’erano appena andati. In alcuni casi il sangue a terra era ancora fresco. Dopo aver visto un centinaio di morti, smettemmo di contarli. In ogni vicolo c’erano cadaveri – donne, giovani, nonni e neonati – stesi uno accanto all’altro, in quantità assurda e terribile, dove erano stati accoltellati o uccisi con i mitra. In ogni corridoio tra le macerie trovavamo nuovi cadaveri. I pazienti di un ospedale palestinese erano scomparsi dopo che i miliziani avevano ordinato ai medici di andarsene. Dappertutto, trovavamo i segni di fosse comuni scavate in fretta. Probabilmente erano state massacrate mille persone; e poi forse altre cinquecento.

Mentre eravamo lì, davanti alle prove di quella barbarie, vedevamo gli israeliani che ci osservavano. Dalla cima di un grattacielo a ovest – il secondo palazzo del viale Camille Chamoun – li vedevamo che ci scrutavano con i loro binocoli da campo, spostandoli a destra e a sinistra sulle strade coperte di cadaveri, con le lenti che a volte brillavano al sole, mentre il loro sguardo si muoveva attraverso il campo. Loren Jenkins continuava a imprecare. Pensai che fosse il suo modo di controllare la nausea provocata da quel terribile fetore. Avevamo tutti voglia di vomitare. Stavamo respirando morte, inalando la putredine dei cadaveri ormai gonfi che ci circondavano. Jenkins capì subito che il ministro della Difesa israeliano avrebbe dovuto assumersi una parte della responsabilità di quell’orrore. «Sharon!» gridò. «Quello stronzo di Sharon! Questa è un’altra Deir Yassin.»

Quello che trovammo nel campo palestinese di Shatila alle dieci di mattina del 18 settembre 1982 non era indescrivibile, ma sarebbe stato più facile da raccontare nella fredda prosa scientifica di un esame medico. C’erano già stati massacri in Libano, ma raramente di quelle proporzioni e mai sotto gli occhi di un esercito regolare e presumibilmente disciplinato. Nell’odio e nel panico della battaglia, in quel paese erano state uccise decine di migliaia di persone. Ma quei civili, a centinaia, erano tutti disarmati. Era stato uno sterminio di massa, un’atrocità, un episodio – con quanta facilità usavamo la parola «episodio» in Libano – che andava ben oltre quella che in altre circostanze gli israeliani avrebbero definito una strage terroristica. Era stato un crimine di guerra.

Jenkins, Tveit e io eravamo talmente sopraffatti da ciò che avevamo trovato a Shatila che all’inizio non riuscivamo neanche a renderci conto di quanto fossimo sconvolti. Bill Foley dell’Ap era venuto con noi. Mentre giravamo per le strade, l’unica cosa che riusciva a dire era «Cristo santo!». Avremmo potuto accettare di trovare le tracce di qualche omicidio, una dozzina di persone uccise nel fervore della battaglia; ma nelle case c’erano donne stese con le gonne sollevate fino alla vita e le gambe aperte, bambini con la gola squarciata, file di ragazzi ai quali avevano sparato alle spalle dopo averli allineati lungo un muro. C’erano neonati – tutti anneriti perché erano stati uccisi più di ventiquattro ore prima e i loro corpicini erano già in stato di decomposizione – gettati sui cumuli di rifiuti accanto alle scatolette delle razioni dell’esercito americano, alle attrezzature mediche israeliane e alle bottiglie di whisky vuote.

Dov’erano gli assassini? O per usare il linguaggio degli israeliani, dov’erano i «terroristi»? Mentre andavamo a Shatila avevamo visto gli israeliani in cima ai palazzi del viale Camille Chamoun, ma non avevano cercato di fermarci. In effetti, eravamo andati prima al campo di Burj al-Barajne perché qualcuno ci aveva detto che c’era stato un massacro. Tutto quello che avevamo visto era un soldato libanese che inseguiva un ladro d’auto in una strada. Fu solo mentre stavamo tornando indietro e passavamo davanti all’entrata di Shatila che Jenkins decise di fermare la macchina. «Non mi piace questa storia» disse. «Dove sono finiti tutti? Che cavolo è quest’odore?»

Appena superato l’ingresso sud del campo, c’erano alcune case a un piano circondate da muri di cemento. Avevo fatto tante interviste in quelle casupole alla fine degli anni settanta. Quando varcammo la fangosa entrata di Shatila vedemmo che tutte quelle costruzioni erano state fatte saltare in aria con la dinamite. C’erano bossoli sparsi a terra sulla strada principale. Vidi diversi candelotti di traccianti israeliani, ancora attaccati ai loro minuscoli paracadute. Nugoli di mosche aleggiavano tra le macerie, branchi di predoni che avevano annusato la vittoria.

In fondo a un vicolo sulla nostra destra, a non più di cinquanta metri dall’entrata, trovammo un cumulo di cadaveri. Erano più di una dozzina, giovani con le braccia e le gambe aggrovigliate nell’agonia della morte. A tutti avevano sparato a bruciapelo, alla guancia: la pallottola aveva portato via una striscia di carne fino all’orecchio ed era poi entrata nel cervello. Alcuni avevano cicatrici nere o rosso vivo sul lato sinistro del collo. Uno era stato castrato, i pantaloni erano strappati sul davanti e un esercito di mosche banchettava sul suo intestino dilaniato.

Avevano tutti gli occhi aperti. Il più giovane avrà avuto dodici o tredici anni. Portavano jeans e camicie colorate, assurdamente aderenti ai corpi che avevano cominciato a gonfiarsi per il caldo. Non erano stati derubati. Su un polso annerito, un orologio svizzero segnava l’ora esatta e la lancetta dei minuti girava ancora, consumando inutilmente le ultime energie rimaste sul corpo defunto.

Dall’altro lato della strada principale, risalendo un sentiero coperto di macerie, trovammo i corpi di cinque donne e parecchi bambini. Le donne erano tutte di mezza età ed erano state gettate su un cumulo di rifiuti. Una era distesa sulla schiena, con il vestito strappato e la testa di una bambina che spuntava sotto il suo corpo. La bambina aveva i capelli corti, neri e ricci, dal viso corrucciato i suoi occhi ci fissavano. Era morta.

Un’altra bambina era stesa sulla strada come una bambola gettata via, con il vestitino bianco macchiato di fango e polvere. Non avrà avuto più di tre anni. La parte posteriore della testa era stata portata via dalla pallottola che le avevano sparato al cervello. Una delle donne stringeva a sé un minuscolo neonato. La pallottola attraversandone il petto aveva ucciso anche il bambino. Qualcuno le aveva squarciato la pancia in lungo e in largo, forse per uccidere un altro bambino non ancora nato. Aveva gli occhi spalancati, il volto scuro pietrificato dall’orrore.

Tveit cercò di registrare tutto su una cassetta, parlando lentamente in norvegese e in tono impassibile. «Ho trovato altri corpi, quelli di una donna con il suo bambino. Sono morti. Ci sono altre tre donne. Sono morte.»

Di tanto in tanto, premeva il bottone della pausa e si piegava per vomitare nel fango della strada. Mentre esploravamo un vicolo, Foley, Jenkins e io sentimmo il rumore di un cingolato. «Sono ancora qui» disse Jenkins e mi fissò. Erano ancora lì. Gli assassini erano ancora nel campo. La prima preoccupazione di Foley fu che i miliziani cristiani potessero portargli via il rullino, l’unica prova – per quanto ne sapesse – di quello che era successo. Cominciò a correre lungo il vicolo.

Io e Jenkins avevamo paure più sinistre. Se gli assassini erano ancora nel campo, avrebbero voluto eliminare i testimoni piuttosto che le prove fotografiche. Vedemmo una porta di metallo marrone socchiusa; l’aprimmo e ci precipitammo nel cortile, chiudendola subito dietro di noi. Sentimmo il veicolo che si addentrava nella strada accanto, con i cingoli che sferragliavano sul cemento. Jenkins e io ci guardammo spaventati e poi capimmo che non eravamo soli. Sentimmo la presenza di un altro essere umano. Era lì vicino a noi, una bella ragazza distesa sulla schiena.

Era sdraiata lì come se stesse prendendo il sole, il sangue ancora umido le scendeva lungo la schiena. Gli assassini se n’erano appena andati. E lei era lì, con i piedi uniti, le braccia spalancate, come se avesse visto il suo salvatore. Il viso era sereno, gli occhi chiusi, era una bella donna, e intorno alla sua testa c’era una strana aureola: sopra di lei passava un filo per stendere la biancheria e pantaloni da bambino e calzini erano appesi. Altri indumenti giacevano sparsi a terra. Quando gli assassini avevano fatto irruzione, probabilmente stava ancora stendendo il bucato della sua famiglia. E quando era caduta, le mollette che teneva in mano erano finite a terra formando un piccolo cerchio di legno attorno al suo capo.

Solo il minuscolo foro che aveva sul seno e la macchia che si stava man mano allargando indicavano che fosse morta. Perfino le mosche non l’avevano ancora trovata. Pensai che Jenkins stesse pregando, ma imprecava di nuovo e borbottava «Dio santo», tra una bestemmia e l’altra. Provai tanta pena per quella donna. Forse era più facile provare pietà per una persona giovane, così innocente, una persona il cui corpo non aveva ancora cominciato a marcire. Continuavo a guardare il suo volto, il modo ordinato in cui giaceva sotto il filo da bucato, quasi aspettandomi che aprisse gli occhi da un momento all’altro.

Probabilmente quando aveva sentito sparare nel campo era andata a nascondersi in casa. Doveva essere sfuggita all’attenzione dei miliziani fino a quella mattina. Poi era uscita in giardino, non aveva sentito nessuno sparo, aveva pensato che fosse tutto finito e aveva ripreso le sue attività quotidiane. Non poteva sapere quello che era successo. A un tratto qualcuno aveva aperto la porta, improvvisamente come avevamo fatto noi, e gli assassini erano entrati e l’avevano uccisa. Senza pensarci due volte. Poi se n’erano andati ed eravamo arrivati noi, forse soltanto un minuto o due dopo.

Rimanemmo in quel giardino ancora per un po’. Io e Jenkins eravamo spaventati. Come Tveit, che era momentaneamente scomparso, Jenkins era un sopravvissuto. Mi sentivo al sicuro con lui. I miliziani – gli assassini della ragazza – avevano violentato e accoltellato le donne di Shatila e sparato agli uomini, ma sospettavo che avrebbero esitato a uccidere Jenkins e l’americano avrebbe cercato di dissuaderli. «Andiamocene via di qui» disse, e ce ne andammo. Fece capolino in strada per primo, io lo seguii, chiudendo la porta molto piano perché non volevo disturbare la donna morta, addormentata, con la sua aureola di mollette da bucato.

Foley era tornato sulla strada vicino all’entrata del campo. Il cingolato era scomparso, anche se sentivo che si spostava sulla strada principale esterna, in direzione degli israeliani che ci stavano ancora osservando. Jenkins sentì Tveit urlare da dietro una catasta di cadaveri e lo persi di vista. Continuavamo a perderci di vista dietro i cumuli di cadaveri. Un attimo prima stavo parlando con Jenkins, un attimo dopo mi giravo e scoprivo che mi stavo rivolgendo a un ragazzo, riverso sul pilastro di una casa con le braccia penzoloni dietro la testa.

Sentivo le voci di Jenkins e Tveit a un centinaio di metri di distanza, dall’altra parte di una barricata coperta di terra e sabbia che era stata appena eretta da un bulldozer. Sarà stata alta più di tre metri e mi arrampicai con difficoltà su uno dei lati, con i piedi che scivolavano nel fango. Quando ormai ero arrivato quasi in cima persi l’equilibrio e per non cadere mi aggrappai a una pietra rosso scuro che sbucava dal terreno. Ma non era una pietra. Era viscida e calda e mi rimase appiccicata alla mano. Quando abbassai gli occhi vidi che mi ero attaccato a un gomito che sporgeva dalla terra, un triangolo di carne e ossa.

Lo lasciai subito andare, inorridito, pulendomi i resti di carne morta sui pantaloni, e finii di salire in cima alla barricata barcollando. Ma l’odore era terrificante e ai miei piedi c’era un volto al quale mancava metà bocca, che mi fissava. Una pallottola o un coltello gliel’avevano portata via, quello che restava era un nido di mosche. Cercai di non guardarlo. In lontananza, vedevo Jenkins e Tveit in piedi accanto ad altri cadaveri davanti a un muro, ma non potevo chiedere aiuto perché sapevo che se avessi aperto la bocca per gridare avrei vomitato.

Salii in cima alla barricata cercando disperatamente un punto che mi consentisse di saltare dall’altra parte. Ma non appena facevo un passo, la terra mi franava sotto i piedi. L’intero cumulo di fango si muoveva e tremava sotto il mio peso come se fosse elastico e, quando guardai giù di nuovo, vidi che solo uno strato sottile di sabbia copriva altre membra e altri volti. Mi accorsi che una grossa pietra era in realtà uno stomaco. Vidi la testa di un uomo, il seno nudo di una donna, il piede di un bambino. Stavo camminando su decine di cadaveri che si muovevano sotto i miei piedi.

I corpi erano stati sepolti da qualcuno in preda al panico. Erano stati spostati con un bulldozer al lato della strada. Anzi, quando sollevai lo sguardo vidi il bulldozer – con il posto di guida vuoto – parcheggiato con aria colpevole in fondo alla strada.

Mi sforzavo invano di non camminare sulle facce che erano sotto di me. Provavamo tutti un profondo rispetto per i morti, perfino lì e in quel momento. Continuavo a dirmi che quei cadaveri mostruosi non erano miei nemici, quei morti avrebbero approvato il fatto che fossi lì, avrebbero voluto che io, Jenkins e Tveit vedessimo tutto questo, e quindi non dovevo avere paura di loro. Ma non avevo mai visto tanti cadaveri in tutta la mia vita.

Saltai giù e corsi verso Jenkins e Tveit. Suppongo che stessi piagnucolando come uno scemo perché Jenkins si girò. Sorpreso. Ma appena aprii la bocca per parlare, entrarono le mosche. Le sputai fuori. Tveit vomitava. Stava guardando quelli che sembravano sacchi davanti a un basso muro di pietra. Erano tutti allineati, giovani uomini e ragazzi, stesi a faccia in giù. Gli avevano sparato alla schiena mentre erano appoggiati al muro e giacevano lì dov’erano caduti, una scena patetica e terribile.

Quel muro e il mucchio di cadaveri mi ricordavano qualcosa che avevo già visto. Solo più tardi mi sarei reso conto di quanto assomigliassero alle vecchie fotografie scattate nell’Europa occupata durante la Seconda guerra mondiale. Ci sarà stata una ventina di corpi. Alcuni nascosti da altri. Quando mi inchinai per guardarli più da vicino notai la stessa cicatrice scura sul lato sinistro del collo. Gli assassini dovevano aver marchiato i prigionieri da giustiziare in quel modo. Un taglio sulla gola con il coltello significava che l’uomo era un terrorista da giustiziare immediatamente. Mentre eravamo lì sentimmo un uomo gridare in arabo dall’altra parte delle macerie: «Stanno tornando». Così corremmo spaventati verso la strada. A ripensarci, probabilmente era la rabbia che ci impediva di andarcene, perché ci fermammo all’ingresso del campo per guardare in faccia alcuni responsabili di quello che era successo. Dovevano essere arrivati lì con il permesso degli israeliani. Dovevano essere stati armati da loro. Chiaramente quel lavoro era stato controllato – osservato attentamente – dagli israeliani, dagli stessi soldati che guardavano noi con i binocoli da campo.

Sentimmo un altro mezzo corazzato sferragliare dietro un muro a ovest – forse erano falangisti, forse israeliani – ma non apparve nessuno. Così proseguimmo. Era sempre la stessa scena. Nelle casupole di Shatila, quando i miliziani erano entrati dalla porta, le famiglie si erano rifugiate nelle camere da letto ed erano ancora tutti lì, accasciati sui materassi, spinti sotto le sedie, scaraventati sulle pentole. Molte donne erano state violentate, i loro vestiti giacevano sul pavimento, i corpi nudi gettati su quelli dei loro mariti o fratelli, adesso tutti neri di morte.

C’era un altro vicolo in fondo al campo dove un bulldozer aveva lasciato le sue tracce sul fango. Seguimmo quelle orme fino a quando non arrivammo a un centinaio di metri quadrati di terra appena arata. Sul terreno c’era un tappeto di mosche e anche lì si sentiva il solito, leggero, terribile odore dolciastro. Vedendo quel posto, sospettammo tutti di che cosa si trattasse, una fossa comune scavata in fretta. Notammo che le nostre scarpe cominciavano ad affondare nel terreno, che sembrava liquido, quasi acquoso e tornammo indietro verso il sentiero tracciato dal bulldozer, terrorizzati.

Un diplomatico norvegese – un collega di Ane-Karina Arveson – aveva percorso quella strada qualche ora prima e aveva visto un bulldozer con una decina di corpi nella pala, braccia e gambe che penzolavano fuori dalla cassa. Chi aveva ricoperto quella fossa con tanta solerzia? Chi aveva guidato il bulldozer? Avevamo una sola certezza: gli israeliani lo sapevano, lo avevano visto accadere, i loro alleati – i falangisti o i miliziani di Haddad – erano stati mandati a Shatila a commettere quello sterminio di massa. Era il più grave atto di terrorismo – il più grande per dimensioni e durata, commesso da persone che potevano vedere e toccare gli innocenti che stavano uccidendo – della storia recente del Medio Oriente.

Incredibilmente, c’erano alcuni sopravvissuti. Tre bambini piccoli ci chiamarono da un tetto e ci dissero che durante il massacro erano rimasti nascosti. Alcune donne in lacrime ci gridarono che i loro uomini erano stati uccisi. Tutti dissero che erano stati i miliziani di Haddad e i falangisti, descrissero accuratamente i diversi distintivi con l’albero di cedro delle due milizie.

Sulla strada principale c’erano altri corpi. «Quello era il mio vicino, il signor Nuri» mi gridò una donna. «Aveva novant’anni.» E lì sul marciapiede, sopra un cumulo di rifiuti, era disteso un uomo molto anziano con una sottile barba grigia e un piccolo berretto di lana ancora in testa. Un altro vecchio giaceva davanti a una porta in pigiama, assassinato qualche ora prima mentre cercava di scappare. Trovammo anche alcuni cavalli morti, tre grossi stalloni bianchi che erano stati uccisi con una scarica di mitra davanti a una casupola, uno di questi aveva uno zoccolo appoggiato al muro, forse aveva cercato di saltare per mettersi in salvo mentre i miliziani gli sparavano.

C’erano stati scontri nel campo. La strada vicino alla moschea di Sabra era diventata sdrucciolevole per quanto era coperta di bossoli e nastri di munizioni, alcuni dei quali erano di fattura sovietica, come quelli usati dai palestinesi. I pochi uomini che possedevano ancora un’arma avevano cercato di difendere le loro famiglie. Nessuno avrebbe mai conosciuto la loro storia. Quando si erano accorti che stavano massacrando il loro popolo? Come avevano fatto a combattere con così poche armi? In mezzo alla strada, davanti alla moschea, c’era un kalashnikov giocattolo di legno in scala ridotta, con la canna spezzata in due.

Camminammo in lungo e in largo per il campo, trovando ogni volta altri cadaveri, gettati nei fossi, appoggiati ai muri, allineati e uccisi a colpi di mitra. Cominciammo a riconoscere i corpi che avevamo già visto. Laggiù c’era la donna con la bambina in braccio, ecco di nuovo il signor Nuri, disteso sulla spazzatura al lato della strada. A un certo punto, guardai con attenzione la donna con la bambina perché mi sembrava quasi che si fosse mossa, che avesse assunto una posizione diversa. I morti cominciavano a diventare reali ai nostri occhi."

(da: "https://nena-news.it/sabra-e-shatila-ce-lo-dissero-le-mosche/#comments)

Anonimo - 05/12/2023 08:30

Copio e incollo:

".....La resistenza palestinese ha raggirato il più esteso e sviluppato sistema di controllo del mondo, ha eluso il più sofisticato servizio segreto del mondo, ha sbaragliato il secondo esercito più equipaggiato, armato e tecnologicamente avanzato del mondo e ha sferrato un colpo durissimo all’apparato militare sionista....."...

Il colpo durissimo all'apparato militare consiste in donne stuprate, prese a sputi e poi sventrate, bambini ammazzati come cani (ammesso e non concesso che oggi in occidente si possa fare qualcosa del genere ad un cane), cadaveri villipesi, crani sfondati con pali di ferro. Tutti civili. Alla faccia del colpo all'apparato militare. Auguro ad Israele la più grande vittoria e morte agli sgozzatori. Quanto a voi, vi invito ad arruolarvi nella milizia islamista seguendone le regole. Così vi leverete un bel po' di idiozie dalla testa.

Anonimo - 05/12/2023 03:30

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