Voci dal Manicomio di Maggiano
Voci dal manicomio di Maggiano
di Giovanni Contini.
Negli ultimi mesi sono stati pubblicati due libri importanti di storia orale dedicati all’esperienza manicomiale: la nuova edizione ampliata del libro di Anna Maria Bruzzone, Ci chiamavano matti. Voci dal manicomio (1968-1977), a cura di Marica Setaro e Silvia Calamai (Il Saggiatore, Milano 2021), e il primo esito di una ricerca in corso: Maggiano. Gli anni del cambiamento 1958-1968, a cura di Giovanni Contini e Marco Natalizi (con un DVD contenente le interviste, Pacini Fazzi, Pisa 2020). Alcuni estratti delle voci registrate da Bruzzone ad Arezzo si possono ascoltare qui. Del libro su Maggiano, invece, riproduciamo qui sotto l’introduzione scritta dal nostro socio ed ex presidente AISO Giovanni Contini.
Un’introduzione…
Poche parole per introdurre il primo risultato di una ricerca che ormai continua da circa un decennio. Si tratta però più di un work in progress che di un punto di arrivo.
Quando decidemmo di intervistare pazienti, infermieri e psichiatri che avevano vissuto il manicomio di Maggiano prima della sua chiusura immaginavamo, immaginavo, che il compito si sarebbe esaurito in qualche mese. Invece proprio la complessità della realtà che progressivamente ricostruivamo con le nostre interviste ci ha portato a spostare sempre in avanti i paletti della nostra ricerca. Così dopo molti anni ancora non possiamo dirla conclusa. Arriviamo infatti, con questa pubblicazione, al 1968 circa, restano quindi ancora da studiare gli ultimi, fondamentali, anni prima della chiusura del manicomio.
Abbiamo potuto intervistare solo un numero assai limitato di ex pazienti. Questo è avvenuto perché i pazienti psichiatrici hanno purtroppo una vita più breve della norma, e perché i fatti relativi al manicomio sono ormai sempre più distanti del tempo. Ma è avvenuto anche perché è difficile avvicinare – e ancor più intervistare – queste persone: spesso non possono o non vogliono parlare; altre volte sono i loro tutori a non darci l’autorizzazione all’intervista. Inoltre, come spiego più i dettaglio in un testo che segue, credo che dovremo rivedere radicalmente il “modo” attraverso il quale svolgiamo l’intervista con gli ex pazienti psichiatrici. Non è infatti possibile ripetere la modalità di colloquio che abbiamo adottato nel passato, con il testimone che siede di fronte all’intervistatore, magari per più di un’ora. Inoltre è assurdo impostare un colloquio che chieda al testimone di raccontarci la sua vicenda in modo cronologico; talvolta si tratta, infatti, di persone che hanno un diverso senso del tempo, o che vivono in un eterno presente.
Un malato che intervistammo, assai grave, si mostrò molto infastidito della nostra reciproca posizione, noi seduti di fronte a lui, e dei microfoni che gli erano stati istallati sotto la camicia (normalmente viveva nudo, coprendosi con una coperta); durante il colloquio continuò a ripetere che a suo parere l’intervista era inutile, almeno per lui e per i suoi simili (forse “può interessare ‘voi civili’”, ci disse). Infine, appena terminato il colloquio ufficiale, e quando apparve uno psichiatra che l’aveva aiutato nel passato, gli disse di avere un cane che era stato ferito molto gravemente e che lo cercava da anni; gli chiese se il cane, se l’avesse incontrato dopo tanto tempo, sarebbe stato in grado di riconoscerlo. Queste frasi furono pronunciate in modo emotivamente assai intenso, mentre le risposte alle nostre domande erano state enunciate con tono freddo e distaccato. Insomma: il momento più interessante e significativo dell’incontro non venne registrato. Ma quel momento aveva una forza comunicativa straordinaria, condensata in poche frasi; una concentrazione di significato simile a quella della poesia paragonata alla prosa.
Nel futuro, intervistando i malati, dovremo seguire metodologie assai diverse, dovremo allungare i tempi del colloquio, porre le domande in modo differente da come le poniamo ai testimoni non psichiatrici. Infatti, probabilmente, il formato standard delle interviste di storia orale, quello della “storia di vita” non sempre funziona, in questo caso. Una possibilità potrà essere quella di partire da dettagli apparentemente insignificanti (per esempio: “avevate animali domestici in famiglia?” “Qual’era la pietanza che preferivate da piccoli?” “Ci sono sogni che per voi sono stati importanti?”), che possano permettere all’intervistato di costruire il suo racconto prescindendo da una rappresentazione della sua vita secondo un rigido schema lineare e progressivo, e di costruire la narrazione in altro modo, magari nella forma di cerchi concentrici, o eccentrici. Questo metodo, del resto, viene già oggi fruttuosamente utilizzato da Marco Buttino nella sua ricerca sulle attività economiche dei migranti dall’Africa a Torino.
Gli infermieri sono il gruppo che abbiamo intervistato più largamente. Tra loro abbiamo grosso modo individuato due tipologie abbastanza diverse. La prima era formata dagli infermieri anziani (ormai difficili da intervistare) che erano entrati in ospedale psichiatrico molti anni prima di quelli, effervescenti, che precedettero la sua chiusura. Non avevano ricevuto un training specifico, erano stati scelti perché robusti e capaci di contenere fisicamente i pazienti in occasioni delle loro crisi e di fatto continuavano anche durante le interviste a ricordare i “matti” più come animali da domare che come essere umani da comprendere, da compatire e da aiutare. In un caso un infermiere anziano ci raccontò divertito di quando permise ad un alcolista di bere del vino, per poter ottenere da lui la firma su un documento, firma che fino a quel momento il malato si era rifiutato di concedere; da notare che il paziente faceva uso di sostanze che potevano mandarlo in coma, se assumeva alcol. Comprensibilmente gli infermieri di questo tipo apprezzarono incondizionatamente l’introduzione dei farmaci in grado di sedare i malati. Si trattava infatti di un’alternativa alla costrizione attiva che fino a quel momento avevano praticato nei confronti degli internati, una novità che riduceva i loro sforzi e i rischi che potevano correre.
Il secondo gruppo era formato dagli infermieri più giovani, i quali non solo avevano ricevuto un training di alcuni mesi, ma avevano poi fatti proprio il discorso critico che la psichiatria democratica aveva messo in circuito a partire dagli anni Sessanta. Il loro ricordo dell’esperienza manicomiale, di conseguenza, è assai più complesso e sofferto. Avevano infatti dovuto agire nel manicomio in gran parte ancora tradizionale, pur avendo una migliore formazione professionale e una sensibilità più evoluta. Conoscevano la critica radicale alla contenzione fisica ma avevano dovuto utilizzare la camicia di forza, avevano dovuto accompagnare i pazienti che dovevano essere trattati con l’elettroshock o con il coma insulinico. Soprattutto avevano fatto proprio un caposaldo del discorso antipsichiatrico: gran parte dei pazienti non erano affatto “matti”, erano piuttosto persone che in un punto della loro esistenza erano rimaste vittime di una crisi psicologica, dovuta però non ad una patologia organica ma all’estrema durezza della loro vita. Una volta chiuse in manicomio avevano poi manifestato i tipici sintomi del paziente istituzionalizzato.
Tuttavia nel corso delle nostre interviste erano cominciati ad emergere figure di infermieri ancora diverse: giovani ma del tutto privi di qualunque interesse per il lavoro che erano chiamati a svolgere. Di questa tipologia, tuttavia, avevamo notizie dalle interviste degli psichiatri, ma non abbiamo ancora incontrato nessuno di loro, per intervistarlo.
Gli psichiatri sono stati anch’essi incontrati assai di frequente. Ma i loro racconti, in molti casi, vertevano più sui problemi relativi alla carriera, ai conflitti con i loro pari o con gli infermieri, che sulla follia e sui malati. La loro interpretazione dei sintomi psicotici e del mondo dei malati mentali spesso era del tutto assente, o molto marginale. In casi più rari ma preziosi i nostri intervistati sono riusciti a narrare la follia in modo assai efficace, raccontando storie cliniche da loro vissute con grande partecipazione e capacità empatica. Più in generale riescono a fornirci una rappresentazione della follia molto convincente e suggestiva: “… Quando tu capisci che il delirio è un modo di negazione del passare del tempo e quindi della morte allora ti rapporti da mortale a mortale, e il delirio è una costruzione di un orgoglio smisurato che però ha probabilmente la consapevolezza di essere tale e allora quando ti intendi … dici: “io non ti provoco sul piano del tuo delirio perché se tu ci hai il problema di difenderti dal terrore della morte guarda che ce l’ho anch’io e quindi siamo su due piani che si equivalgono”; e allora delle volte si assiste a delle cose incredibili, come quello che smette questa finzione del delirio quando parla con te, perché sa che non lo aggredisci dal bisogno di (…) essere come grande uomo immortale”, così Dal Pistoia, certamente il nostro testimone più efficace, tra gli psichiatri ascoltati.
Interviste come quella appena riportata rappresentano il punto più alto della nostra raccolta. Si tratta quindi, per noi, di trovare nel futuro un numero maggiore di psichiatri di questo tipo, che siano capaci di raccontarci non solo e non tanto i dettagli burocratici di una carriera, ma le riflessioni che vennero stimolate dal vivere per lunghi anni il mondo terribile ma anche affascinante del manicomio.
Infine dovremo raccogliere anche quanto rimane nella memoria locale dell’ospedale psichiatrico. Il quale è stato per lunghi decenni una sorta di grande fabbrica nella quale molti speravano e alcuni riuscivano a trovare un posto di lavoro, la Fiat di Lucca, si diceva. Il manicomio, quindi, era osservato, se ne raccoglievano i racconti che i parenti infermieri facevano in famiglia. “Immaginario collettivo” è spesso un’espressione fastidiosa perché, a mio avviso, generica e quasi sempre inappropriata. Nel caso del manicomio di Maggiano, tuttavia, possiamo dire che il manicomio fosse diventato un “luogo di memoria” assai importante, un’immagine elaborata anche da parte di chi non lo conosceva realmente di prima mano. Quell’immagine, quel fantasma se si vuole, ci interessa raccoglierlo nelle interviste con gli abitanti della zona. E vogliamo ascoltare non solo gli anziani, ma anche i giovani e i giovanissimi, che potranno dirci come immaginano quella passata esperienza, e forse anche dirci come i loro anziani lo raccontavano.
Certamente la nostra ricerca ha evidenziato molti punti ancora oscuri, relativi ai tempi della trasformazione del manicomio. Secondo alcune testimonianza Maggiano si poneva all’avanguardia, nel processo di critica e trasformazione del manicomio. Molti testimoni dicono che da fuori si veniva a Lucca per vedere quali risultati fossero stati raggiunti, insomma: Maggiano, per un certo periodo, rappresentò un elemento di punta, all’interno del movimento di critica alla contenzione manicomiale. Però altre testimonianze, di psichiatri e infermieri entrati in manicomio dopo il 1968, raccontano di aver trovato una situazione molto tradizionale, di essere stati colpiti e offesi di fronte alla contenzione fisica dei malati con le camicie di forza, o di fronte agli ultimi elettroshock.
Per esempio Paradisi, entrato dopo il 1970 a Maggiano come infermiere, così racconta: “Ho partecipato a due elettroshock. E le volevo dire anche: quello ha condizionato la mia vita. Gli ultimi elettroshock che ho visto fare sono stati fatti in villa S. Maria, e mi ricordo questo signore sempre sotto … certamente con l’anestesista. L’elettroshock che ho visto fare io era già dal volto umano, se si può chiamare così. Con l’anestesia generale. Si può immaginare quelli senza anestesia. Comunque la contenzione si fece lo stesso. Mi ricordo che eravamo in due infermieri che si conteneva questo ammalato e poi i famosi elettrodi. Veniva steso su un lettino, questo signore, poi dopo venivano messi questi elettrodi e poi tramite questa macchinetta veniva dato il colpo. E si sentiva subito. Poi si riportava in reparto e io mi ricordo che mi fu data l’incombenza su un quaderno di scrivere quello che diceva al risveglio. Per gli psichiatri era molto importante. Per me era una cosa disumana”. E ancora: Per esempio io non lo so … mi sono trovato a legare delle persone. Perché l’elettroshock è stato uno … ma poi mi sono trovato in vigilanza a legare delle persone … ora, francamente delle volte ci si trovava davanti: … andava legato … io… non è che tante volte c’era quello che era un po’ così allora si legava. E mi ricordo sempre quando venne l’ordine (ero in vigilanza, allora) che non si poteva più legare senza l’ordine del medico. E questo ordine venne negli anni ’73, ’74. Prima si poteva legare. Perché tanta gente dice: “negli anni ’60…” No: negli anni ’60 si legava. Insomma io voglio dire … io l’ho legate delle persone … Non sono mica delle esperienze come se si va a farsi un lavaggio di testa …”.
Anche sui farmaci miracolosi alcuni psichiatri nutrono dei dubbi, e anche loro raccontano vicende che non risalgono agli anni Cinquanta, ma si collocano alla fine del decennio successivo: “… Quando sono arrivato in questo reparto erano tutti sdraiati in terra, sotto le stufe, specialmente d’inverno perché non c’era il riscaldamento, c’erano queste stufe grosse, ed erano sdraiati in terra perché prendevano il Serpasil e la pressione era a 100. Quindi si diceva: «Vedi, vedi, sono questi. Sono matti, ecco perché stanno sdraiati in terra». Non era così” . Il ricordo è quello di Pietro Lastrucci, entrato a Maggiano nel 1967.
Giovanni Del Poggetto, entrato un paio di anni prima riporta anche lui un’immagine scioccante del manicomio: “Mi ricordo di essere passato per tutti i reparti in maniera abbastanza … Ho visto, ho registrato, ma non ho avuto un colpo nello stomaco che ho avuto invece nei due reparti 7, reparti agitati, uomini e donne. Alle donne c’ero andato un giorno con il Dottor Devoto, a quel tempo ancora dottore, e dagli uomini, uomini e donne, agitati, in cui c’erano nelle donne, tre o quattro donne nude e negli uomini cinque o sei uomini nudi in parte … ho un ricordo confuso, però almeno metà erano legati. Le donne, mi si stringeva il cuore, erano nude, con macchie di mestruo sulle gambe, con i capelli annodati, liberi … di follia da tutte le parti. E io chiesi: “chi sono?” E il Dottor Giordano, bravissimo medico …, “sono dei gravissimi idioti”… erano dei soggetti autistici…dei soggetti autistici non riconosciuti, non diagnosticati”.
I frammenti di intervista che ho riportato sono presenti anche nel corposo saggio che forma la parte centrale di questo testo. Ho deciso di parlarne anche in questa introduzione per segnalare come la nostra ricerca debba, appunto, chiarire la sfasatura tra la rivendicazione di eccellenza di Maggiano, proposta con forza da alcuni, e queste testimonianze, che vanno esattamente in senso contrario. Si tratta infatti di stabilire se vecchio e nuovo coesistettero per un lungo periodo, o se una prima ventata di innovazione, impersonata nel nuovo direttore Gherarducci, venne poi bloccata. E se sì, da chi, e perché.
In Italia la storia orale ha una ricca tradizione che risale agli anni '50, ma l’Associazione Italiana di Storia Orale (AISO) è impegnata anche in nuovi ambiti come archivi orali e tecnologie digitali, e public history.
È la registrazione dei ricordi, delle esperienze e delle opinioni delle persone su ciò che hanno vissuto.
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Offre punti di vista originali e spesso sorprendenti sul passato e sul presente, che sovvertono, contraddicono o integrano le narrative dominanti.
È un’opportunità per salvare racconti, tradizioni orali, lingue e “arti del dire” che sono in continua trasformazione.
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Aisoitalia.org