Il racconto di un vecchio lucchese tra ricordi e malinconia
Sono qui, fermo a letto con un femore rotto, malato e solo. Non posso più camminare per le strade della mia città, ma la porto ancora dentro di me. Basta chiudere gli occhi e i ricordi tornano vivi, con i loro odori, i loro suoni, i loro colori.
Sono nato al rione della Pelleria. Ricordo l’odore del bucato steso, delle botteghe, del pane caldo. E ricordo “Da Giulio”: la sua zuppa fumante che riempiva la stanza di profumo, densa, calda, capace di avvolgerti come un abbraccio. Non era solo cibo, era casa.
La mia città era fatta anche di voci. Le risate squillanti della Frusa, che tutti chiamavano “cosce di ferro”, i toni forti della Tata, le battute brusche ma argute della Troncausci, e il vociare allegro del Soldino. Ognuno aveva il suo timbro, e insieme formavano la musica della città.
Da bambino, l’estate sapeva di acqua fresca nei fossi. Ci tuffavamo tra gli schizzi, l’acqua trasparente ci stringeva la pelle e ci faceva rabbrividire, ma era una felicità che ancora sento sulla pelle. E poi le giostre sotto le Mura: luci colorate che brillavano nella notte, la musica stonata che arrivava dalle casse, il profumo dolce e appiccicoso dello zucchero filato che si scioglieva in bocca.
E c’era il gelataio col carrettino a motore, il ronzio del suo motore che annunciava l’arrivo della festa. Tirava giù il coperchio del suo contenitore e ti consegnava un cono: il freddo del gelato, la dolcezza del cioccolato o della fragola. Bastava quello per essere i bambini più felici del mondo.
Poi i negozi: l’Upim, con le sue luci bianche e i corridoi pieni di voci. I fotografi, con l’odore acre delle pellicole e delle carte fotografiche. Io andavo da Foto Puccinelli, in via San Paolino: ci lasciavi il rullino e l’attesa era lunga, giorni e giorni, ma quando ritiravi le foto il fruscio della carta tra le dita era emozione pura. Oggi, al suo posto, c’è un negozio cinese. E il silenzio di quell’insegna mancante fa più rumore di cento chiacchiere.
E poi la gioventù, con i suoi suoni e i suoi colori. Le automobili che salivano sulle Mura, il motore che brontolava piano e il vento che ti accarezzava il viso. I cinema: il Pantera, con il fruscio della pellicola e il fumo che riempiva l’aria; il Gonfalone, con il profumo delle sedie di legno; il piccolo Mignon, che faceva arrossire solo a nominarlo; e l’Eden, dove la domenica pomeriggio era fatta di chiasso, risate e sogni sul grande schermo.
E poi le camporelle: l’erba alta che ti pungeva la pelle, il cielo immenso sopra di te, le risate di un amore giovane che sapeva di libertà.
Oggi tutto è cambiato. Lucca è elegante, ordinata, patinata. Ma io sento ancora l’odore della zuppa, il fresco dei fossi, il dolce dello zucchero filato, il ronzio del carrettino del gelataio. Forse è il mondo che è peggiorato, o forse sono io, che rimpiango la mia giovinezza e guardo il presente con occhi stanchi.
Quella Lucca non tornerà più, ma resta viva nei miei sensi, nei ricordi che mi tengono compagnia mentre resto qui, fermo a letto. Finché avrò respiro, la sentirò ancora: la mia città, la mia gioventù, la mia Lucca che non c’è più.
B.D.