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LA VIOLENZA VERSO GLI INFERMIERI IN PSICHIATRIA: UN’INDAGINE MULTICENTRICA
Rivista L'Infermiere N° 1 - 2016
Antonino Calabro'
INTRODUZIONE
Il National Institute of Occupational Safety and Health definisce la violenza sul posto di lavoro come “ogni aggressione fisica, comportamento minaccioso o abuso verbale che si verifica sul posto di lavoro” (NHS, 2009). Nel contesto lavorativo gli atti di violenza, nella maggior parte dei casi, sono rappresentati da eventi con esito non severo, ossia aggressione o tentativo di aggressione, fisica o verbale, quale quella realizzata con uso di un linguaggio offensivo.
La Joint Commission riporta, dal 2007 al giugno 2013, un numero complessivo di 257 eventi sentinella legati ad aggressione, violenza e omicidio (The Joint Commission, 2013). Nelle strutture ospedaliere italiane gli infortuni denunciati all’INAIL per qualifica professionale e modalità di accadimento nell’anno 2005 ammontano a 429, di cui 234 su infermieri e 7 su medici (INAIL, 2007). Nel 2010 gli infortuni denunciati all’INAIL nei servizi ospedalieri (totali non suddivisi per forma di accadimento) sono stati 15.417, in calo del 2,5% rispetto al 2009: quelli in itinere sono stati 2.873, il 18,6% del totale. Gli operatori che hanno fatto registrare il maggior numero di denunce di infortunio sono stati gli infermieri (46%), i portantini (22%) il medico (poco meno del 6%) (INAIL, 2013).
Gli episodi di violenza contro operatori sanitari sono considerati eventi sentinella, ovvero eventi avversi di particolare gravità, potenzialmente evitabili, che possono determinare morte o grave danno al paziente e all’operatore (Ministero del Lavoro della Salute e delle Politiche Sociali, 2009).
L’accadimento di questi eventi evidenzia potenziali carenze organizzative e può essere indicativo di insufficiente consapevolezza, da parte dell’organizzazione, del possibile pericolo di violenza all’interno delle strutture sanitarie. In particolare l’evento può dipendere da scarsa vigilanza, da sottovalutazione dei pazienti a rischio di compiere aggressioni fisiche e da difficoltà relazionali tra operatori e utenza. Il riconoscimento tempestivo dell’evento è importante per definire e attuare interventi di carattere organizzativo e logistico, per la revisione dei protocolli in uso, per programmare la formazione del personale.
In generale, gli eventi di violenza si manifestano più frequentemente nelle aree di emergenza e urgenza e nelle strutture psichiatriche ospedaliere e territoriali. La conferma viene dal “Protocollo di Monitoraggio degli eventi sentinella 4° Rapporto (Settembre 2005-Dicembre 2011)” in cui la psichiatria viene descritta come area ad alto rischio di atti di violenza a danno di operatore e come quarta causa di evento avverso sul territorio nazionale (130 casi pari al 9.02%) .
Queste sono alcune delle ragioni per cui il tema della violenza sul posto di lavoro e l’aggressione nei settori della sanità e nei servizi sociali hanno assunto una posizione centrale in alcuni programmi di politica governativa.
Nel Regno Unito, la manifestazione più evidente di questa tendenza è stata il perseguimento attivo di una politica di “tolleranza zero” della violenza nei confronti del personale sanitario (NHS, 2009). Inoltre, nonostante la violenza al personale sia descritta come un problema unico per i servizi di assistenza sanitaria, l’aumento dei livelli di violenza è parte di un fenomeno sociale più ampio (Staub, 1996).
La National Health Service Foundation Trust (NHS, 2009) considera gli operatori sanitari uno dei gruppi più a rischio di aggressione nel Regno Unito; le statistiche del crimine indicano che circa il 5% di tutti gli infermieri nel Regno Unito sono aggrediti ogni anno (Budd, 1999).
Analoghi dati sono registrati anche in Irlanda, nei paesi Scandinavi e in Australia (Zernike & Sharpe, 1998). Una revisione della letteratura della American Psychiatric Nurses Association (A.P.N.A) evidenzia che il 75% del personale infermieristico in unità psichiatriche (S.P.D.C.) è stato aggredito almeno una volta durante la carriera (A.P.N.A., 2008). Il 62% del personale clinico psichiatrico e il 28% del personale non clinico riferiscono di avere subito aggressione da parte dei pazienti almeno una volta nel corso della carriera. Il 94% degli infermieri psichiatrici canadesi ha riferito di essere stato aggredito almeno una volta nella carriera mentre il 54% ha riferito di essere stato aggredito più di 10 volte. Una ricerca irlandese (HSE, 2008) ha sottolineato come, nell’ambito della salute mentale che nell’ambito della gli infermieri siano particolarmente a rischio di aggressione fisica.
Altri studi hanno focalizzato l’attenzione sugli episodi di violenza in relazione al genere e al numero di operatori.
Lo studio di Daffern (2006), dimostra che l’impatto di genere del personale ospedaliero verso l’aggressione rimane un tema poco descritto in letteratura e che non ci sono dati significativi nella relazione tra genere e aggressione in una degenza psichiatrica.
Lo studio di Staggs (2013), invece, evidenza che il numero del personale è direttamente proporzionale ai tassi d'aggressione e che, in presenza di un numero elevato di personale, tale rapporto è invertito e ancora, che il numero di infermieri esperti diminuisce tale associazione.
Uno studio italiano di Salerno e Dimitri (2009) che ha valutato la frequenza e il tipo di comportamento aggressivo manifestato dai pazienti e provato a identificare le caratteristiche dei pazienti più inclini a mostrare un comportamento aggressivo verso personale sanitario, ha dimostrato che il reparto psichiatrico presenta un rischio professionale elevato per gli operatori sanitari, soprattutto infermieri. Il comportamento aggressivo è particolarmente elevato durante il giorno e tra i pazienti psicotici ricoverati senza il loro consenso.
La segnalazione degli episodi di aggressione è molto bassa: secondo i dati dell’A.P.N.A. il 43% delle violenze fisiche e il 61% di violenza non fisica non vengono denunciate. Il 32% dei dipendenti aggrediti e l'8% di chi subisce violenza non fisica considerano la violenza come parte del lavoro.
L’INDAGINE
Per dimensionare e comprendere meglio il fenomeno delle aggressioni verso gli infermieri in ambito psichiatrico è stata condotta un’indagine che ha coinvolto tutti gli infermieri che lavorano presso i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura del territorio piemontese: complessivamente 24 unità operative.
I dati sugli eventi aggressivi nei confronti del personale sono stati recuperati presso le unità di gestione del rischio clinico mentre per esplorare le conoscenze e il vissuto degli infermieri nei confronti degli agiti aggressivi è stato costruito uno specifico questionario. Le aree considerate, prendendo come riferimento la ricerca condotta dal NHS nel 2010, sono state: la cultura pro-security, la consapevolezza dello staff sulla politica della sicurezza e iniziative, l’esperienza personale sulla violenza, le cause potenziali e fattori aggravanti, la risposta alla violenza e il miglioramento della sicurezza. Complessivamente le domande somministrate sono state 14.
Delle 24 unità operative coinvolte nell’indagine, solo 15 hanno risposto al questionario. Solo 3 unità di gestione del rischio clinico su 8 hanno ricevuto segnalazioni di eventi avversi o eventi sentinella da parte del personale degli SPDC. Tra le segnalazioni effettuate 15 sono state fisiche e 2 verbali.
Complessivamente i questionari somministrati sono stati 186, quelli compilati e restituiti 156. I rispondenti sono stati donne in una percentuale pari al 68,6% e uomini nella percentuale del 31,4%. L’età media è di 43 anni e la media degli anni di lavoro presso gli SPDC pari a 8. Il 92% degli operatori lavora su 3 turni, solo il 3%, lavora invece su un solo turno.
I risultati relativi alle aree indagate dal questionario sono stati i seguenti:
CULTURA “PRO-SECURITY”: gli intervistati hanno riferito di sentirsi mediamente al sicuro sul posto di lavoro (47%) ma che, in presenza di pazienti violenti, si sentono mediamente meno sicuri. La maggior parte degli operatori considera di avere una discreta capacità di gestire le aggressioni verbali mentre questa capacità è scarsa per quelle verbali.
CONSAPEVOLEZZA DELLO STAFF SULLE POLITICHE DELLA SICUREZZA E INIZIATIVE: la maggioranza degli intervistati (73%) dichiara di non conoscere iniziative rispetto alla gestione degli agiti aggressivi, mentre il 98% dichiara di non essere a conoscenza di iniziative aziendali a supporto del personale aggredito.
ESPERIENZA DEL PERSONALE VERSO LA VIOLENZA: per quanto riguarda le aggressioni fisiche e verbali subite nei 6 mesi precedenti la somministrazione del questionario, il 47% ha subito aggressioni verbali, il 56% aggressioni fisiche. Negli anni di lavoro il 19% non è mai stato aggredito fisicamente e il 4% non è mai stato aggredito verbalmente. Le sensazioni provate durante le aggressioni subite sono state diverse (TABELLA 1).
CAUSE POTENZIALI E FATTORI AGGRAVANTI DELLA VIOLENZA: il 78% individua i disturbi correlati a sostanze, il 47%, invece, i disturbi di personalità Le ore diurne sono considerate il momento nel quale si verificano più aggressioni dal 84% rispetto alle ore notturne. Mentre non vi è una netta distinzione per il rischio di aggressione se il paziente si trova in regime di trattamento sanitario obbligatorio; solo il 54% riferisce che il rischio aumenta. Il fattore più rilevante rispetto a potenziali cause ambientali è stato percepito dagli intervistati come il rapporto spazio persone, cioè un possibile rischio di sovraffollamento nel luogo di degenza.
RISPOSTA ALLA VIOLENZA: la segnalazione dell'incidente da parte del personale è considerata un importante strumento sia per i casi di aggressione fisica che per quelli di aggressione verbale.
MIGLIORARE LA SICUREZZA: l’informazione sulle modalità di difesa da un’aggressione e l’organizzazione sono da tutti ritenute fondamentali per una corretta gestione degli episodi di violenza. Paura, stress, frustrazione e sicurezza sono state le parole più spesso utilizzate per descrivere le sensazioni vissute durante gli episodi di violenza.
Vizio di mente, fra psichiatria e codice penale
di Cristina Da Rold
Il compito di elicato delle perizie psichiatriche nei tribunali si scontra con alcuni limiti di un codice penale fermo a cent'anni fa per quanto riguarda il vizio di mente, nel frattempo la comprensione della psiche umana è avanzata
SOCIETÀ
DISTURBI MENTALI
PSICOLOGIA
NEUROSCIENZE
Una donna, dopo aver compiuto un duplice omicidio in famiglia, si è costituita. È stata condannata ma prosciolta in primo grado a seguito di una diagnosi di schizofrenia, che tuttavia non è stata confermata in secondo grado. Attualmente la donna sta attendendo in carcere il risultato di una terza perizia, richiesta in Corte d’appello.
A lavorare a questa terza delicata perizia è Enrico Zanalda, psichiatra e presidente della Società italiana di psichiatria forense. “Una situazione come questa è al limite, perché per certi versi si può diagnosticare nella donna la presenza di tratti schizofrenici nel momento in cui è stato commesso il reato, per altri no.” A seconda di come andrà la perizia, il destino dell’omicida sarà molto diverso: se si decide per il vizio di mente, la donna verrà prosciolta e verrà presa in carico dai servizi territoriali o dalle Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza (REMS), a seconda del caso; senza vizio di mente sconterà invece la sua pena in carcere.
Chiediamo a Zanalda di spiegarci come funziona una perizia psichiatrica, ossia come si fa a decidere quando una malattia mentale è vizio di mente oppure no. Non basta che sussista un disturbo: questo deve essere connesso al reato. “Deve esserci un chiaro nesso di causa fra la psicopatologia del paziente e il crimine commesso: questa è la difficoltà.”
Come funziona una perizia psichiatrica
I quesiti che interessano al giudice per decidere se prosciogliere il colpevole oppure no sono quattro: se la persona era capace intendere e volere quando è stato commesso il fatto, se è in grado di stare in giudizio, se ci sono gli estremi per il vizio di mente, e quale sia il percorso di cura più adatto per contenere la sua pericolosità sociale.
Il compito dello psichiatra nominato dal magistrato è anzitutto studiare gli incartamenti, analizzare la storia della persona, e incontrarla tre o quattro volte, eventualmente somministrando test psicodiagnostici. Il tutto in circa due mesi, talvolta tre se il perito chiede una proroga.
Nel primo grado solitamente la perizia psichiatrica viene richiesta se la persona che ha commesso il reato arriva già segnalata dai servizi o se il pubblico ministero (PM) ha dei dubbi. Il PM nomina un perito psichiatra, a sua scelta, oppure segnala il paziente al Giudice per le indagini preliminari (GIP) affinché decreti un incidente probatorio, cioè la possibilità di anticipare l'acquisizione e la formazione di una prova. Se il processo avviene con rito abbreviato, il risultato della perizia richiesta dal GIP può essere già quello definitivo, mentre se si prosegue in dibattimento, il giudice può chiedere una seconda perizia. Nel complesso un imputato può riceverne al massimo tre: una durante le indagini preliminari, una durante il dibattimento e una terza eventualmente in appello, che diventa collegiale, trattandosi dell’ultimo grado di giudizio.
Non conta il disturbo, conta il nesso con il reato
Nei pazienti che ne ricevono più di una, la diagnosi di solito risulta condivisa, mentre la correlazione fra disturbo e reato non sempre: uno psichiatra può leggervi più o meno chiaramente un nesso, mentre un altro specialista no. L’aspetto delicato è capire se il reato che la persona ha compiuto era in quel momento connesso al suo disturbo.
“Può esserci lo schizofrenico ben compensato che compie un furto di gioielli, che non è però in relazione alla patologia, e quindi sarà reputato in perizia come pienamente responsabile del proprio gesto. Un caso ben diverso è quello di un paziente schizofrenico che nei suoi deliri pensa che gli alieni stiano arrivando sulla Terra e decide di rubare del denaro per assicurarsi un futuro in caso di bisogno. In quest’ultimo caso il reato è connesso al disturbo”, spiega Zanalda.
Dal 2005 una sentenza della Corte costituzionale ha incluso fra i disturbi papabili di vizio di mente anche i disturbi di personalità e le nevrosi, purché di intensità importante e tali da far scemare la capacità di intendere e di volere. Fino ad allora il vizio di mente era applicato solo nei casi di psicosi grave. Questo perché nei primi anni duemila si era osservato che un paziente su cinque preso in carico dai Dipartimenti di salute mentale aveva un disturbo della personalità. Da allora questo problema ha assunto dignità di malattia purché sia assodato il nesso con l’incapacità di intendere e di volere. È una questione di demarcazione diagnostica fra nevrosi e psicosi. La nevrosi è un rapporto distorto con la realtà da dimostrare, nella psicosi invece questa distorsione è assodata.
Anche la diagnosi, tuttavia, può non essere sempre così condivisa. La psichiatria si arricchisce anno dopo anno di nuovi risultati provenienti dalla letteratura medica. “Tempo fa mi ero occupato del caso di una signora che aveva ucciso i genitori, ma che era stata giudicata sana di mente, perché dalle perizie non è emersa una netta connessione fra il reato e la sua salute mentale, anche se potevano esserci dei dubbi e chissà un altro psichiatra come avrebbe lavorato.” Oggi questa donna sconta l’ergastolo.
Le psicosi, la schizofrenia – che è caratterizzata da psicosi ma anche da allucinazioni e deliri, cioè la convinzione assoluta di qualcosa di non reale o falso – sono relativamente “semplici” da diagnosticare per un esperto. Vi sono casi più liminali, come per esempio l’aggressività che sfocia in un reato in una persona che fino a quel momento non ha avuto una diagnosi.
“In quel caso dipende molto dal reato”, racconta Zanalda. “Se è molto grave, si valuta con più calma che cosa può esserci sotto. In ogni modo, sebbene vi siano casi difficili come questi, nella maggior parte dei casi un reato non viene commesso dal nulla da una persona con malattia mentale.” L’esordio della malattia – ci racconta Zanalda – non avviene quasi mai con il crimine. Spesso chi commette un reato e a una prima perizia risulta portatore di vizio di mente ha una storia alle spalle.
La ricerca procede, mentre il codice penale è fermo agli anni trenta del secolo scorso. “Non è stato attualizzato alla moderna cura delle persone con malattia mentale, è ancora pieno di riferimenti ai manicomi che oggi sono considerati superati poiché dannosi anche per i pazienti autori di reato.”
Gli psichiatri forensi sono pochi. Soprattutto i giovani
Oggi in Italia si contano un migliaio di psichiatri forensi. Pochi, se pensiamo che gli psichiatri sono 12.000 circa. In realtà il numero preciso non è noto, perché non esiste un registro unico dei consulenti tecnici nei tribunali italiani, ma ogni tribunale ha il suo. Il problema della carenza di psichiatri che si mettono a disposizione per questo tipo di attività è presto detto: il lavoro prevede una grande impegno per inquadrare una persona in due-tre mesi al massimo, e un’enorme responsabilità, trattandosi di decidere del futuro di una persona e indirettamente anche di molte altre a lei legate, per non parlare delle eventuali vittime, e al tempo stesso le retribuzioni sono bassissime, ferme a vent’anni fa. A un giovane che comincia, anche se formato adeguatamente e aggiornato, “conviene” molto di più continuare a esercitare la professione nel proprio studio.
Una salute mentale a gettoni
Cristina Da Rold
I periti, poi, devono avere la capacità di confrontarsi con le parti del procedimento e sostenere le loro convinzioni cliniche nel contraddittorio con i consulenti delle parti. Ci sono situazioni in cui si assiste a confronti anche aspri a cui molti colleghi non amano partecipare. La recente riforma Cartabia ha introdotto tempistiche procedurali telematiche, più stringenti, e soprattutto la possibile valutazione sulla capacità della vittima di formulare la querela qualora questa non debba più essere formulata d’ufficio.
“Da un punto di vista retributivo – continua Zanalda – la situazione nell’ambito civile è migliore poiché il compenso è affidato alle parti e non segue le lungaggini burocratiche dei tribunali." Tuttavia, i tempi richiesti per espletare un incarico in ambito civile sono più lunghi e articolati. Sono quasi sempre presenti le controparti e i contraddittori sono sicuramente più animati. Lo psichiatra in ambito civile viene chiamato per valutare la capacità di agire di un soggetto in relazione ai provvedimenti di tutela o a eventuali negozi, contratti o testamenti, argomenti molto complessi e controversi.
O sei malato o non lo sei
In Italia inoltre abbiamo infine una peculiarità tutta nostra: una persona giudicata colpevole può essere considerata psichiatricamente “completamente malata” (art. 88 del Codice penale – vizio totale di mente) che prevede il proscioglimento, oppure “parzialmente malata” (art. 89 del Codice penale – vizio parziale di mente), e in questo caso si applica uno sconto di pena pari a un terzo della stessa, da scontare in carcere. Alla fine si valuta se persiste la pericolosità sociale della persona e se inviarla nelle REMS, oppure nei casi meno gravi in strutture territoriali, insieme cioè a persone che non hanno commesso reati.
“È qualcosa che stiamo cercando di far superare in Italia, perché la logica dell’articolo 89 cozza con quella del medico: per me o sei malato o non lo sei. Forse sarebbe più opportuno introdurre delle attenuanti per tutti i casi di sofferenza psichica, in modo meno netto.” Bisognerebbe modificare il codice penale ma, conclude Zanalda, “nonostante vi siano state varie proposte nel corso delle scorse legislature, non si è ottenuto nulla di concreto perché farlo significherebbe mettere mano a principi di legge molto fondativi.”
Le scienze. It
Che vol di' SPDC? Ci provo:
Solo Pazzi Deviati e Cerebrolesi..... mah.....
Basaglia, la pazzia liberata. Psichiatria Democratica e Neuro-comunismo
di MARCELLO VENEZIANI 29 Agosto 2020 In Cultura
Basaglia – Il santuario laico della nostra Italia progressista e antifascista venera santi politici come Pertini e Berlinguer, santi sociali come don Lorenzo Milani, patrono della scuola e Mario Mieli, patrono degli omosessuali (ma anche dei pedofili). E santi medici come lo psichiatra Franco Basaglia, di cui si ricorda il 29 agosto il quarantennale della morte. Basaglia fu l’apostolo della follia liberata, manicomi chiusi e pazzi a piede libero.
La follia non esiste, la malattia mentale è una malattia sociale, frutto delle costrizioni sociali fu il messaggio dedotto dalla sua lezione. Abolire la pazzia fu il sogno del ’68 e diventò legge dieci anni dopo con la famosa legge 180, nel nome dell’antipsichiatria e della psichiatria democratica. Ricordiamo la tragedia sociale prodotta dalla legge 180, cosa volle dire il “liberi tutti” alla follia; quali drammi scatenò, quanti abbandoni e solitudini, malati allo sbando, incapacità delle strutture ospedaliere di accogliere i dementi in crisi, tormenti delle famiglie, spesso in condizioni di povertà e di ignoranza, nel gestire da sole il famigliare demente.
Quanti dolori esplosero allora e non trovarono strutture pronte ad aiutarli; Mario Tobino visse da medico queste esperienze e poi le raccontò da scrittore. Sarebbe pazzia rimpiangere i manicomi così com’erano; ce n’erano alcuni che erano diventati veri lager; era necessario trasformarli radicalmente.
Nessuno rimpiange la segregazione punitiva della follia, frutto perverso del razionalismo scientista, perché i manicomi sono figli dei lumi e della scienza positivista. Sappiamo quanti maltrattamenti e abusi, anche sessuali, quante speculazioni sulla pelle dei malati e sulle loro rette. Ma l’abolizione degli ospedali psichiatrici in base all’assurda teoria che la malattia mentale non esiste ma è frutto dei rapporti di classe e delle condizioni socio-culturali, come sostenevano i seguaci sessantottini di Lang, Basaglia e l’antipsichiatria, produsse ferite e traumi giganteschi.
Psichiatria Democratica
Basterebbe pensare al movimento Psichiatria Democratica, aberrante già nella denominazione, e soprattutto al sottinteso ideologico e politico che l’etichetta democratico in quegli anni evocava, alludendo a un collettivismo militante di tipo marxista e comunista. Immaginate l’estensione grottesca di quella definizione: odontoiatria democratica, cardiologia democratica, cancerologia democratica, per finire magari in un bell’obitorio democratico… La lotta di classe combattuta sulla testa dei malati di mente, l’idea di liberazione applicata anche a chi aveva al contrario bisogno di assistenza e protezione, non di liberazione.
Neuro-comunismo
Di tutto questo non c’è traccia nella lirica epopea di Basaglia, celebrato nei decenni come un Liberatore e un Apostolo dei Matti. L’idea che si potesse abolire la realtà e con la realtà la pazzia, fu l’aberrazione ideologica di questa perniciosa filantropia. Fu l’egualitarismo in camice, il neuro-comunismo applicato ai territori delicati della psiche. Il delirio dell’antipsichiatria al potere e la riduzione a carnefice di chiunque criticasse la loro posizione: chi si opponeva alla scuola democratica scadeva al rango di aguzzino dei lager per malati di mente, o sostenitore autoritario dell’uso di farmaci ed elettrochoc, letti di contenzione e camicie di forza.
Ne parlo per esperienza diretta, non in veste di psichiatra né di matto, come forse alcuni di voi sospettano, perché sono nato e cresciuto nella città dei pazzi, Bisceglie. Un centro che aveva quasi in centro un grande manicomio, il più grande del sud diceva qualcuno forse malato di mitomania. Un manicomio, la casa della Divina Provvidenza, che accoglieva migliaia di malati, dava lavoro a migliaia di infermieri e medici e aveva diramazioni in mezzo sud.
Don Pasquale Uva
Proprio il fondatore della Casa della Divina Provvidenza aveva indicato una via diversa. Si chiamava don Pasquale Uva, era un prete e al paese lo chiamavano Zì’ Terrone perché proveniva dalla terra e si definiva “operaio nella vigna del Signore”. Il suo modello fu Cottolengo. Dobbiamo pensare cos’era l’Italia e in particolare il sud prima che lui fondasse quei ricoveri. I dementi vagavano per le strade, ridotti alla fame e agli stracci, derisi e aggrediti o a loro volta aggressivi e pericolosi. Benemeriti come don Uva e le suore che lo affiancarono, li raccolsero dalle strade e dettero loro cure, cibi, assistenza.
Ma don Uva capì quanta sofferenza covava dietro quelle grate. Così, dopo trent’anni di gestione degli ospedali psichiatrici, progettò il villaggio post-manicomiale per i malati di mente: avrebbe avuto al suo interno azienda agricola, pascoli, stalle, orti, vigneti e frutteti, laboratori, mulini e pastifici, cinema-teatro e caffè, circoli e sale di bigliardi, impianti sportivi. Pensò cioè all’integrazione graduale dei malati tramite l’ergoterapia e la ludoterapia, il lavoro e il gioco.
Nessuno raccolse l’eredità di quel progetto
Non casermoni cupi e ospedali-carceri ma agili strutture di cura, come avrebbero dovuto essere i centri d’igiene mentale. Aveva previsto un piano di spesa e individuato i siti idonei. Ma la sua età avanzava coi primi malanni, non trovò adeguati sostegni e poco dopo morì.
Nessuno raccolse l’eredità di quel progetto. Fu così che alla degenerazione degli istituti psichiatrici si oppose la follia di chiuderli e si dichiarò cessata per legge e ideologia la malattia mentale. Ma se la verità conta qualcosa, avrebbe giovato ai dementi più l’opera e poi l’idea di don Pasquale Uva che la generosa ma nociva utopia di Basaglia. Però don Uva fu beatificato in Chiesa, Basaglia fu santificato in società, dai media, le fiction e la cultura dominante. A Basaglia vanno riconosciuti il fervore ideale e la passione umanitaria ma non si possono cancellare i danni della legge 180 ancora perduranti.
MV, La Verità
Articolo 2016
LA VIOLENZA VERSO GLI INFERMIERI IN PSICHIATRIA: UN’INDAGINE MULTICENTRICA
Rivista L'Infermiere N° 1 - 2016
Antonino Calabro'
INTRODUZIONE
Il National Institute of Occupational Safety and Health definisce la violenza sul posto di lavoro come “ogni aggressione fisica, comportamento minaccioso o abuso verbale che si verifica sul posto di lavoro” (NHS, 2009). Nel contesto lavorativo gli atti di violenza, nella maggior parte dei casi, sono rappresentati da eventi con esito non severo, ossia aggressione o tentativo di aggressione, fisica o verbale, quale quella realizzata con uso di un linguaggio offensivo.
La Joint Commission riporta, dal 2007 al giugno 2013, un numero complessivo di 257 eventi sentinella legati ad aggressione, violenza e omicidio (The Joint Commission, 2013). Nelle strutture ospedaliere italiane gli infortuni denunciati all’INAIL per qualifica professionale e modalità di accadimento nell’anno 2005 ammontano a 429, di cui 234 su infermieri e 7 su medici (INAIL, 2007). Nel 2010 gli infortuni denunciati all’INAIL nei servizi ospedalieri (totali non suddivisi per forma di accadimento) sono stati 15.417, in calo del 2,5% rispetto al 2009: quelli in itinere sono stati 2.873, il 18,6% del totale. Gli operatori che hanno fatto registrare il maggior numero di denunce di infortunio sono stati gli infermieri (46%), i portantini (22%) il medico (poco meno del 6%) (INAIL, 2013).
Gli episodi di violenza contro operatori sanitari sono considerati eventi sentinella, ovvero eventi avversi di particolare gravità, potenzialmente evitabili, che possono determinare morte o grave danno al paziente e all’operatore (Ministero del Lavoro della Salute e delle Politiche Sociali, 2009).
L’accadimento di questi eventi evidenzia potenziali carenze organizzative e può essere indicativo di insufficiente consapevolezza, da parte dell’organizzazione, del possibile pericolo di violenza all’interno delle strutture sanitarie. In particolare l’evento può dipendere da scarsa vigilanza, da sottovalutazione dei pazienti a rischio di compiere aggressioni fisiche e da difficoltà relazionali tra operatori e utenza. Il riconoscimento tempestivo dell’evento è importante per definire e attuare interventi di carattere organizzativo e logistico, per la revisione dei protocolli in uso, per programmare la formazione del personale.
In generale, gli eventi di violenza si manifestano più frequentemente nelle aree di emergenza e urgenza e nelle strutture psichiatriche ospedaliere e territoriali. La conferma viene dal “Protocollo di Monitoraggio degli eventi sentinella 4° Rapporto (Settembre 2005-Dicembre 2011)” in cui la psichiatria viene descritta come area ad alto rischio di atti di violenza a danno di operatore e come quarta causa di evento avverso sul territorio nazionale (130 casi pari al 9.02%) .
Queste sono alcune delle ragioni per cui il tema della violenza sul posto di lavoro e l’aggressione nei settori della sanità e nei servizi sociali hanno assunto una posizione centrale in alcuni programmi di politica governativa.
Nel Regno Unito, la manifestazione più evidente di questa tendenza è stata il perseguimento attivo di una politica di “tolleranza zero” della violenza nei confronti del personale sanitario (NHS, 2009). Inoltre, nonostante la violenza al personale sia descritta come un problema unico per i servizi di assistenza sanitaria, l’aumento dei livelli di violenza è parte di un fenomeno sociale più ampio (Staub, 1996).
La National Health Service Foundation Trust (NHS, 2009) considera gli operatori sanitari uno dei gruppi più a rischio di aggressione nel Regno Unito; le statistiche del crimine indicano che circa il 5% di tutti gli infermieri nel Regno Unito sono aggrediti ogni anno (Budd, 1999).
Analoghi dati sono registrati anche in Irlanda, nei paesi Scandinavi e in Australia (Zernike & Sharpe, 1998). Una revisione della letteratura della American Psychiatric Nurses Association (A.P.N.A) evidenzia che il 75% del personale infermieristico in unità psichiatriche (S.P.D.C.) è stato aggredito almeno una volta durante la carriera (A.P.N.A., 2008). Il 62% del personale clinico psichiatrico e il 28% del personale non clinico riferiscono di avere subito aggressione da parte dei pazienti almeno una volta nel corso della carriera. Il 94% degli infermieri psichiatrici canadesi ha riferito di essere stato aggredito almeno una volta nella carriera mentre il 54% ha riferito di essere stato aggredito più di 10 volte. Una ricerca irlandese (HSE, 2008) ha sottolineato come, nell’ambito della salute mentale che nell’ambito della gli infermieri siano particolarmente a rischio di aggressione fisica.
Altri studi hanno focalizzato l’attenzione sugli episodi di violenza in relazione al genere e al numero di operatori.
Lo studio di Daffern (2006), dimostra che l’impatto di genere del personale ospedaliero verso l’aggressione rimane un tema poco descritto in letteratura e che non ci sono dati significativi nella relazione tra genere e aggressione in una degenza psichiatrica.
Lo studio di Staggs (2013), invece, evidenza che il numero del personale è direttamente proporzionale ai tassi d'aggressione e che, in presenza di un numero elevato di personale, tale rapporto è invertito e ancora, che il numero di infermieri esperti diminuisce tale associazione.
Uno studio italiano di Salerno e Dimitri (2009) che ha valutato la frequenza e il tipo di comportamento aggressivo manifestato dai pazienti e provato a identificare le caratteristiche dei pazienti più inclini a mostrare un comportamento aggressivo verso personale sanitario, ha dimostrato che il reparto psichiatrico presenta un rischio professionale elevato per gli operatori sanitari, soprattutto infermieri. Il comportamento aggressivo è particolarmente elevato durante il giorno e tra i pazienti psicotici ricoverati senza il loro consenso.
La segnalazione degli episodi di aggressione è molto bassa: secondo i dati dell’A.P.N.A. il 43% delle violenze fisiche e il 61% di violenza non fisica non vengono denunciate. Il 32% dei dipendenti aggrediti e l'8% di chi subisce violenza non fisica considerano la violenza come parte del lavoro.
L’INDAGINE
Per dimensionare e comprendere meglio il fenomeno delle aggressioni verso gli infermieri in ambito psichiatrico è stata condotta un’indagine che ha coinvolto tutti gli infermieri che lavorano presso i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura del territorio piemontese: complessivamente 24 unità operative.
I dati sugli eventi aggressivi nei confronti del personale sono stati recuperati presso le unità di gestione del rischio clinico mentre per esplorare le conoscenze e il vissuto degli infermieri nei confronti degli agiti aggressivi è stato costruito uno specifico questionario. Le aree considerate, prendendo come riferimento la ricerca condotta dal NHS nel 2010, sono state: la cultura pro-security, la consapevolezza dello staff sulla politica della sicurezza e iniziative, l’esperienza personale sulla violenza, le cause potenziali e fattori aggravanti, la risposta alla violenza e il miglioramento della sicurezza. Complessivamente le domande somministrate sono state 14.
Delle 24 unità operative coinvolte nell’indagine, solo 15 hanno risposto al questionario. Solo 3 unità di gestione del rischio clinico su 8 hanno ricevuto segnalazioni di eventi avversi o eventi sentinella da parte del personale degli SPDC. Tra le segnalazioni effettuate 15 sono state fisiche e 2 verbali.
Complessivamente i questionari somministrati sono stati 186, quelli compilati e restituiti 156. I rispondenti sono stati donne in una percentuale pari al 68,6% e uomini nella percentuale del 31,4%. L’età media è di 43 anni e la media degli anni di lavoro presso gli SPDC pari a 8. Il 92% degli operatori lavora su 3 turni, solo il 3%, lavora invece su un solo turno.
I risultati relativi alle aree indagate dal questionario sono stati i seguenti:
CULTURA “PRO-SECURITY”: gli intervistati hanno riferito di sentirsi mediamente al sicuro sul posto di lavoro (47%) ma che, in presenza di pazienti violenti, si sentono mediamente meno sicuri. La maggior parte degli operatori considera di avere una discreta capacità di gestire le aggressioni verbali mentre questa capacità è scarsa per quelle verbali.
CONSAPEVOLEZZA DELLO STAFF SULLE POLITICHE DELLA SICUREZZA E INIZIATIVE: la maggioranza degli intervistati (73%) dichiara di non conoscere iniziative rispetto alla gestione degli agiti aggressivi, mentre il 98% dichiara di non essere a conoscenza di iniziative aziendali a supporto del personale aggredito.
ESPERIENZA DEL PERSONALE VERSO LA VIOLENZA: per quanto riguarda le aggressioni fisiche e verbali subite nei 6 mesi precedenti la somministrazione del questionario, il 47% ha subito aggressioni verbali, il 56% aggressioni fisiche. Negli anni di lavoro il 19% non è mai stato aggredito fisicamente e il 4% non è mai stato aggredito verbalmente. Le sensazioni provate durante le aggressioni subite sono state diverse (TABELLA 1).
CAUSE POTENZIALI E FATTORI AGGRAVANTI DELLA VIOLENZA: il 78% individua i disturbi correlati a sostanze, il 47%, invece, i disturbi di personalità Le ore diurne sono considerate il momento nel quale si verificano più aggressioni dal 84% rispetto alle ore notturne. Mentre non vi è una netta distinzione per il rischio di aggressione se il paziente si trova in regime di trattamento sanitario obbligatorio; solo il 54% riferisce che il rischio aumenta. Il fattore più rilevante rispetto a potenziali cause ambientali è stato percepito dagli intervistati come il rapporto spazio persone, cioè un possibile rischio di sovraffollamento nel luogo di degenza.
RISPOSTA ALLA VIOLENZA: la segnalazione dell'incidente da parte del personale è considerata un importante strumento sia per i casi di aggressione fisica che per quelli di aggressione verbale.
MIGLIORARE LA SICUREZZA: l’informazione sulle modalità di difesa da un’aggressione e l’organizzazione sono da tutti ritenute fondamentali per una corretta gestione degli episodi di violenza. Paura, stress, frustrazione e sicurezza sono state le parole più spesso utilizzate per descrivere le sensazioni vissute durante gli episodi di violenza.
Paziente psichiatrico picchia 6 medici e infermieri
Lucca, 19 ottobre 2021 - Medici e infermieri aggrediti nella notte al Pronto soccorso dell’ospedale San Luca da un paziente psichiatrico in preda a un raptus violento. L’uomo era stato appena trasportato in ambulanza all’ospedale, ma voleva essere visitato immediatamente, nonostante il suo non fosse un caso urgente. Così ha rivolto improvvisamente la sua frustrazione sul personale in servizio, ferendo almeno sei persone. La prognosi si aggira su 21 giorni a testa per lesioni, contusioni e sospette fratture.
Sarebbero appunto 6 tra medici e infermieri le vittime della sconcertante esplosione di rabbia: adesso sono tutti a casa, in malattia, ma la vicenda sta suscitando un certo malumore in ospedale. Nel frattempo il protagonista dell’aggressione, un italiano già noto per episodi simili, è stato ricoverato in psichiatria in seguito all’intervento delle forze dell’ordine, accorse dopo alcuni minuti.
Il drammatico episodio è avvenuto a tarda notte al San Luca. Il paziente psichiatrico era stato portato in ambulanza e il personale del Pronto soccorso lo stava prendendo in carico in attesa dell’arrivo delle forze dell’ordine. Ma l’uomo, già noto per episodi violenti legati alle sue problematiche psichiatriche, voleva essere visitato immediatamente e ha dato in escandescenza. Ha inziato a gridare e insultare il personale, per poi scagliarsi violentemente con calci e pugni contro chiunque cercasse di calmarlo.
A farne le spese sono stati sei fra medici e infermieri, in pratica quasi un intero turno di servizio. Non è stato affatto facile per la Polizia bloccare l’uomo. L’aggressione ha così mandato temporaneamente in tilt il Pronto soccorso, che ha subito notevoli rallentamenti nell’attività per almeno due ore.
Un episodio che ha suscitato sconcerto e apprensione al San Luca. Purtroppo non si tratta di casi infrequenti. Questa estate avevamo infatti già raccontato delle varie aggressioni avvenute in pochi mesi nel reparto di psichiatria, con prognosi talvolta superiori ai venti giorni ai medici, oss e infermieri, ma anche di altri episodi violenti ai danni di operatori della bolla Covid. La stessa dottoressa Adalgisa Soriani, direttrice del reparto Spdc (Servizio psichiatrico diagnosi e cura) nell’agosto scorso aveva ammesso la delicatezza della situazione, sottolineando l’impegno dell’Asl per fronteggiare il fenomeno.
Spesso medici e personale infermieristico finiscono infatti per essere il capro espiatorio di situazioni di grave stress, frustrazione o rabbia dei pazienti, quando non sono l’obiettivo preferito di soggetti con problemi psichiatrici come in questo caso.
Due anni fa uguale (2021)
Aggrediti operatori in psichiatria all'ospedale di Lucca
2 anni fa 2021
L'ospedale San Luca di Lucca
In questi ultimi mesi diverse aggressioni con prognosi talvolta superiori ai venti giorni ai medici ed operatori sanitari oss ed infermieri nel reparto SPDC del San Luca di Lucca
Sono stati aggrediti operatori sanitari del reparto anche nella bolla covid con pugni in volto e all'addome a oss ed infermiera con lesioni multiple da un paziente in forte stato di agitazione psicomotoria.
In un altro caso seguente un medico ha riportato lesioni alle costole per un paziente straniero agitato con conseguente referto di infortunio superiore ai venti giorni.
L'8 agosto un altra aggressione da parte di un cittadino straniero in stato di agitazione ha mandato due sanitari del reparto al pronto soccorso, con traumi costali, trauma al volto con sutura al labbro e slogatura polso ed altre contusioni oltre allo shock subito con conseguenti referti fino ai 20 giorni, oltretutto facendo mancare personale al reparto.
Alla luce di questi episodi, spesso ignorati dai mass media, nonostante una aggressione dovrebbe sempre fare notizia specie alla luce della nuova legge sulla Sicurezza degli operatori sanitari, resta da capire quali iniziative, a protezione dei lavoratori del reparto psichiatrico e degli altri pazienti ricoverati vengano intrapese affinchè recarsi al lavoro non sia un costante pericolo e che i casi di aggressione diventino una rarità e non episodi continuativi, spesso causati da persone in preda a sostanze stupefacenti alcuni di essi già conosciuti dalla forze dell'ordine per disordini nelle nostre strade cittadine.
Fonte: Ufficio stampa
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